
Europa. L’unica “difesa comune” che Bruxelles può garantire è quella degli interessi tedeschi

Se alla vigilia di una visita in Italia in tempi di crisi economica ad affermare che i paesi europei devono smettere di tagliare la spesa militare e contribuire maggiormente ai costi della difesa comune attraverso la Nato fosse stato G. W. Bush, nel nostro paese scuole e università sarebbero state occupate, manifestanti con le bandiere rosse e arcobaleno avrebbero solcato le vie di Roma che il presidente americano doveva attraversare e presidenti di Camera e Senato avrebbero rilasciato dichiarazioni solenni in difesa della sovranità del parlamento. Invece a dire a Bruxelles e poi a ripetere su suolo italiano che è necessario investire di più in armi e soldati è stato il presidente democratico, afro e liberal Barack Obama, e allora tutti sono rimasti tranquilli, a Roma e nel resto d’Europa. Il premier Renzi ha ribadito che in Italia le spese militari saranno ancora tagliate, ed è finito tutto lì.
Ma la rampogna del capo di Stato americano ha avuto il merito di evidenziare non una ma due ipocrisie. Oltre a quella relativa al classico “due pesi e due misure” del politicamente corretto che impone di moderare le critiche al primo presidente nero degli Stati Uniti per non essere tacciati di razzisti, c’è la solita commedia europea degli inganni, nella quale mai le parole corrispondono alla realtà e spesso significano il contrario o quasi di quello che vogliono dire. Vale per i temi della difesa come vale per l’unione bancaria, i due più recenti temi di dibattito continentale.
Da quindici anni a questa parte, cioè dal Consiglio europeo di Colonia del 1999, l’Unione Europea rompe le orecchie di grandi e piccini col “pilastro europeo della difesa”, la Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd), la Politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc), l’Agenzia europea per la difesa (Aed: esiste un italiano su 10 mila che sappia chi la dirige?) e altro ancora. L’ultimo bilancio noto dell’Agenzia europea per la difesa risale al 2011 ed è stato pari a 30 milioni di euro. Questi sono stati spesi per il solo funzionamento dell’ente, provvisto di 116 unità di personale: mediamente fanno 258.620 euro per addetto all’anno. I singoli progetti sono finanziati a parte. I soldi arrivano dai Fondi strutturali europei, dal programma Horizon 2020 o da elargizioni di singoli stati interessati a singoli programmi.
Ogni anno l’Aed pubblica i dati del bilancio per la difesa dei 27 paesi che partecipano all’Agenzia (tutti quelli dell’Unione tranne la Danimarca). Lettura interessante. Nell’ultimo, pubblicato l’anno scorso, si legge: «La spesa totale per la difesa continua a diminuire. Nel 2012 la spesa totale per la difesa dei 26 paesi membri dell’Eda (la Croazia non era ancora conteggiata, ndr) ammontava a 189,6 miliardi di euro – una riduzione di 1,1 miliardi ovvero dello 0,6 per cento rispetto al 2011. Essa ha rappresentato circa l’1,50 per cento del loro Pil totale, il valore più basso dal 2006. In termini reali, la spesa totale per la difesa è in diminuzione dal 2006. Nel periodo fra il 2006 e il 2011 è diminuita di 21 miliardi ovvero del 10 per cento, e fra il 2011 e il 2012 si è ridotta ulteriormente del 3 per cento».
Se poi andiamo a vedere la spesa dei singoli paesi, vediamo che in alcuni è molto inferiore all’1,5 per cento del Pil: la Germania spende l’1,3 per cento, l’Italia l’1,2 e la Spagna lo 0,9. La Nato da parecchi anni chiede ai paesi membri di dedicare alla difesa come minimo il 2 per cento del Pil. Ma a parte gli Stati Uniti, che viaggiano attorno al 4,1 per cento, sopra quel minimo ci sono solo il Regno Unito (2,4) e… la Grecia (2,3). Sì, i greci che sono stati costretti a mangiare carrube dalla troika (Ue, Fmi e Bce) per avere in cambio una ciambella di salvataggio finanziario, spendono per le forze armate quasi il doppio della Germania: misteri dell’austerità economica.
Il rimprovero di Obama
La Russia, invece, secondo dati calcolati dalla Banca mondiale, spenderebbe annualmente il 4,5 per cento del suo Pil nelle forze armate. Il maggiore impegno di bilancio in rapporto alle risorse disponibili, però, non spiega la situazione che si è recentemente creata sul fronte Ucraina-Crimea. Infatti la spesa militare totale dei paesi dell’Unione, inferiore percentualmente, è quantitativamente superiore di ben 10 volte a quella russa. Mettiamola così: nemmeno con un budget della difesa 10 volte superiore, nemmeno con una popolazione che è il triplo e un prodotto interno lordo complessivo che è 15 volte quello della Russia la Psdc dell’Unione riesce a fare paura a Mosca.
Naturalmente Bruxelles si è affidata fino ad oggi al ruolo svolto dagli Stati Uniti in seno alla Nato, dove ormai gli americani coprono il 72 per cento di spesa militare complessiva. L’ombrello della Nato sull’Europa è sempre stato un ombrello americano. Ma la cuccagna sta per finire: Obama rinfaccia agli europei di avere tagliato i budget della difesa proprio nel momento in cui sta per farlo lui: l’ultima proposta di bilancio della Casa Bianca prevede infatti di portare la spesa militare a stelle e strisce al 3,5 per cento del Pil l’anno prossimo, e poi diminuirla fino al 2,5 nel 2020.
L’altra grande ipocrisia made in Bruxelles venuta a galla nelle scorse settimane è quella relativa all’unione bancaria. Quasi due anni fa i leader dell’Unione Europea si erano impegnati a creare un’unione bancaria almeno per i paesi della zona dell’euro per evitare che le ricorrenti crisi bancarie si riverberassero sul debito sovrano: ogni volta che nell’eurozona ci sono stati fallimenti o quasi-fallimenti bancari – Irlanda, Spagna e Cipro – a finire sotto pressione è stato il debito nazionale e di riflesso la stabilità dell’euro. Da qui la necessità di creare un regolatore sovranazionale libero dai conflitti di interesse di quelli nazionali, di istituire un fondo sovranazionale per gli interventi di emergenza e di garantire collegialmente i depositi fino a un certo importo.
Naturalmente su quest’ultimo punto i tedeschi hanno detto subito “nein”: un’ovvia estensione dell’indisponibilità di Berlino a creare meccanismi comuni di garanzia dei debiti pubblici e così via. Poi nel tempo, fino al “compromesso” finale approvato il 20 marzo scorso (e che Mario Draghi ha inopinatamente definito «un progresso significativo verso un’unione bancaria migliore»), hanno svuotato di significato anche gli altri punti. Il controllore unico non controllerà tutte le banche europee, ma solo le 128 che rappresentano l’85 per cento di tutti gli asset del sistema bancario europeo. Questo significa che le famose banche regionali tedesche, cruciali negli scambi fra mondo politico e mondo della finanza che non sono una caratteristica solo italiana, non saranno oggetto della vigilanza europea.
In secondo luogo, il fondo di risoluzione unico che dovrebbe fungere da misura di sicurezza non risolverà proprio niente: avrà una portata di 55 milioni di euro, versati dalle banche stesse in varie tranche, e ci vorranno otto anni per costituirlo. Il salvataggio delle banche spagnole nel 2012 da solo è costato 40 milioni di euro, quello di Anglo Irish, la principale responsabile della crisi bancaria irlandese del 2010, quasi 30 milioni. E probabilmente questa banca, come le casse regionali responsabili del crac spagnolo, non sarebbero nemmeno rientrate fra quelle oggetto della supervisione europea. Il fondo di risoluzione non potrà prendere soldi a prestito dal Meccanismo europeo di stabilità – su questo la Germania è stata intransigente – che in teoria dispone di 700 milioni di euro. Questo significa semplicemente che gli stati, se vorranno salvare le loro banche strategiche, dovranno farlo con fondi pubblici loro, l’Europa non contribuirà. Nessun impegno collettivo.
Una realtà ormai conclamata
Ciliegina sulla torta, la Germania ha ottenuto che le regole che verranno definitivamente decise nei prossimi summit europei di questo mese di aprile entrino a far parte di un nuovo accordo intergovernativo anziché attraverso la normativa comunitaria già esistente, cioè le maggioranze qualificate previste dal Trattato di Lisbona. Detto in altri termini, la Germania ha portato a casa un diritto di veto su ogni futura riforma dei regolamenti bancari nell’Unione Europea.
Immaginiamo che da qui a cinque anni una maggioranza qualificata di paesi dell’Unione voglia modificare il diritto comunitario in materia di salvataggi e di garanzie ai depositanti: la Germania potrebbe minacciare di ritirarsi dall’accordo intergovernativo sull’unione bancaria (cioè di ritirare la partecipazione delle sue banche dal fondo di risoluzione) e quindi farla saltare senza violare alcuna norma del Trattato di Lisbona.
Che l’Unione Europea sia ormai diventata un’orchestra dove si suona solo gli spartiti che il direttore tedesco decide di dirigere, è ormai realtà conclamata. Ne è ulteriore conferma il dibattito sul ruolo della Bce dopo le elezioni europee di maggio e sul “quantitative easing”, cioè l’acquisto sistematico di debito pubblico da parte dell’istituto di Francoforte per contrastare la deflazione che si sta abbattendo sui paesi dell’eurozona. Dove il tasso medio di inflazione ormai sta allo 0,7 per cento, ben lontano dal 2 per cento tendenziale previsto dagli statuti della Bce. Improvvisamente il presidente della Bundesbank Jens Weidmann e i principali istituti di studi finanziari tedeschi (l’autorevole Diw di Berlino, l’Istituto per la ricerca economica) hanno scoperto che far funzionare la Bce al modo della Federal Reserve americana sotto Ben Bernanke potrebbe non essere una cattiva idea.
Un’improvvisa conversione alla solidarietà europea e un’abiura delle politiche di austerità che hanno solo peggiorato la situazione nell’Europa meridionale? Mah. L’unica cosa certa è che la deflazione generalizzata nell’eurozona danneggerebbe l’export tedesco verso i paesi più in difficoltà, come Spagna e Italia. Un po’ di maledetta inflazione servirebbe a non veder svanire quote di mercato importanti nel momento in cui le economie di Russia e Cina rallentano e quindi mettono sotto pressione l’export tedesco.
Dunque non trattenete il fiato: il “quantitative easing” si farà, perché adesso coincide con l’interesse dei tedeschi.
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3 commenti
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il QE europeo é già stato fatto e proprio di mille miliardi nel 2011. Si tratta solo di un QE indiretto. Cioè la FED compra direttamente titoli del tesoro USA, la BCE invece ha prestato denaro alle banche e le banche hanno comprato bond europeriferici.
La grande enfasi data dai giornali a questo evento, é un misto di ignoranza o calcolata propaganda filoeuropeista.
Non é nemmeno detto lo facciano, ma l’importante é creare l’idea che l’Europa stia cambiando prima delle elezioni europee……
Shultz ci chiama “amici italiani”, Weidman ,da sempre feroce oppositore e governatore Bundesbank ,miracolosamente pronuncia la parolina QE. Shauble da sempre oppositore della politica di Draghi afferma d’un tratto ” abbiamo abbattutto gli spread con le nostre politiche” diventando un ansioso firmatario delle politiche di Draghi, Renzi vende le auto blu per 57 mila euro (cinquantasettemila …..proprio così ..una svolta…) e Sky tg 24 fa servizi appositi su questa grandissima svolta economica e finanziaria, tutti creano hipe su qualunque cosa dica o faccia Renzi, che le uniche cose che fa sono quelle che non dovrebbe fare senza elezioni, la Boschi si presenta con inquadratura da presidente della Repubblica e dice che hanno i numeri anche senza FI….infatti i numeri li hanno….peccato siano i numeri ottenuti senza voti sullo stravolgimenti dell’asset istituzionale del paese. Io un senato con 21 senatori nominati dai vertici di parriti o comuni senza passare per le elezioni non lo voglio.
Si tratterebbe di un “apparato”che non passerebbe per il voto popolare ma in grado di condizionarne l’espressione alla camera… in pratica il nuovo senato non eletto é un freno alla volontà popolare, probabilmente messo là per bocciare qualunque cosa non voglia l’Europa. E’ un trabocchetto di Renzi, Shultz, Merkel, Napolitano & c.
la sinistra è nata cresciuta e invecchierà nella falsità e nell’ipocrisia.