L’incubo di “Sleepy Joe” Biden

Di Leone Grotti
17 Settembre 2020
Le violenze e i danni provocati dalle rivolte antirazziste erodono il vantaggio del candidato democrat su Trump. Un voto "scontato" sta tornando a essere in bilico
Joe Biden

Articolo tratto dal numero di settembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

«Ora domandatevi: vi sembro un socialista radicale con un debole per i rivoltosi? Davvero?». Se, per quanto in forma di battuta, a poche settimane dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, Joe Biden ha sentito la necessità di recarsi nella Pennsylvania, uno degli “Swing State” che può decidere il voto del 3 novembre, e rivolgere questa domanda retorica al suo uditorio, significa che anche il candidato del Partito democratico sa di avere un problema.

Da quando il 25 maggio Derek Chauvin, poliziotto bianco di 44 anni, ha ucciso l’afroamericano George Floyd a Minneapolis, le strade di decine di città negli Stati Uniti sono state invase da manifestazioni e proteste. Le legittime richieste di giustizia sono spesso degenerate in violenze, tafferugli, saccheggi, roghi, vere e proprie razzie che hanno reso invivibili interi quartieri. La campagna elettorale, che fino a febbraio Donald Trump sperava di giocarsi solo sugli ottimi dati di economia e occupazione, e che fino a maggio Biden sperava di giocarsi solo sulla caotica gestione della pandemia di coronavirus, ha drasticamente acquistato due nuovi temi caldi: l’antirazzismo e la sicurezza. Dopo otto anni passati da vicepresidente al fianco di Barack Obama, Biden può sicuramente contare sul favore di molte comunità di afroamericani, ma è sulla sicurezza che il settantasettenne originario di Scranton, Pennsylvania, presta il fianco alle critiche dei repubblicani.

A inizio settembre Biden ha affermato senza mezzi termini: «Inscenare una sommossa non è protestare. Razziare non è protestare. Appiccare il fuoco non è protestare. Questa è illegalità, né più né meno». Negli stessi giorni i giornali progressisti, che in America hanno fatto della necessità di abbattere Trump la loro missione e unica ragione editoriale, elencavano la serie storica delle dichiarazioni del democratico a favore della sicurezza e della legge. Ma, come confermano i sondaggi, è un po’ tardi per inseguire Trump sul suo terreno e impostare una nuova campagna tutta “law and order”.

Durante la convention democratica, che si è svolta dal 17 al 20 agosto e che ha incoronato ufficialmente Biden come il candidato democratico, nessuno ha parlato in prime time delle violenze dei manifestanti e non è un caso. Innanzitutto perché, come il tycoon non smette di far notare, uno studio dell’Fbi ha confermato che le 10 città più pericolose d’America dal punto di vista del crimine, New York su tutte, sono amministrate da democratici. Affrontare il tema, dunque, rischia di essere un boomerang. Il secondo motivo è che per quanto Biden sia tutt’altro che «un socialista radicale», una larga fetta di chi appoggia lui e i suoi alleati non si discosta molto dalla definizione.

Quando a Seattle, il 24 agosto, un gruppo di attivisti legati a Black Lives Matter ha circondato il dipartimento di polizia dell’East Precinct, ha bloccato le porte dall’esterno e gli ha dato fuoco per bruciare vivi gli agenti all’interno, nessun membro del Consiglio comunale, composto da otto democratici e un socialista radicale, ha condannato l’attacco. Neanche a livello statale da parte dei democratici si sono levate voci in difesa dei poliziotti, che per la cronaca si sono salvati per il rotto della cuffia. Neanche quando il capo del dipartimento ha esplicitamente e pubblicamente chiesto che qualcuno li difendesse.

L’intolleranza degli antirazzisti, che negli Stati Uniti hanno dedicato mesi ad abbattere statue di eroi nazionali e santi, cambiare nomi di vie ed edifici, modificare curriculum nelle scuole, ritirare libri e film, il tutto nel nome della giustizia razziale, ha goduto a tal punto del sostegno dei progressisti che chiunque abbia provato a metterla in discussione è stato fatto fuori.

Prendendo ad esempio soltanto l’ambito editoriale, a giugno sono stati cacciati due storici redattori di importanti testate di tendenza liberal: Stan Wischnowski del Philadelphia Inquirer e James Bennet del New York Times. Il primo è stato crocifisso per aver scritto in un titolo che oltre alle vite dei neri «anche gli edifici contano» («Buildings Matter, Too»). Il secondo, invece, ha avuto la “colpa” di autorizzare la pubblicazione di un commento del senatore repubblicano Tom Cotton a favore dell’intervento dell’esercito per sedare le rivolte in corso.

Un mese dopo, a luglio, si è dovuta dimettere anche Bari Weiss, giornalista e commentatrice di idee “centriste” assunta tre anni fa dal Times proprio per «allargare le vedute» del giornale in seguito alla vittoria di Trump nel 2016: «Nella stampa, ma forse specialmente in questo giornale, è emerso un nuovo pensiero dominante: l’idea che la verità non è un processo di scoperta collettiva, bensì un’ortodossia già nota a pochi illuminati il cui mestiere è quello di informare tutti gli altri», ha scritto all’editore nella sua memorabile lettera di dimissioni. «Pur non comparendo nel colophon del New York Times, Twitter è diventato in ultima analisi il suo vero direttore. Le storie vengono selezionate e raccontate in modo da soddisfare la più ristretta delle platee. I colleghi che non condividono le mie idee mi hanno chiamata nazista e razzista. Esistono parole precise per designare tutto ciò: discriminazione illegale, ambiente di lavoro ostile, dimissioni costruttive. Non sono un’esperta legale. Ma so che sono cose sbagliate».

Quali sono gli Stati chiave

I democratici speravano che dopo l’uccisione di Floyd e due mesi di proteste la situazione si sarebbe calmata. Ma non è andata così. A Portland, Oregon, le manifestazioni e le violenze non si sono mai fermate. E la situazione è peggiorata dopo che il 23 agosto il 29enne afroamericano Jacob Blake è stato colpito con sette colpi di proiettile alla schiena dall’agente Rusten Sheskey a Kenosha, nel Wisconsin, dopo aver resistito all’arresto, rimanendo parzialmente paralizzato. Ancora una volta, la notte dell’incidente e nei giorni successivi ai manifestanti che invocavano giustizia per Blake si sono uniti vandali e approfittatori, che hanno distrutto vetrine e razziato negozi, bruciato edifici e veicoli.

Lo Stato del Wisconsin ha schierato in strada la Guardia nazionale, ma i soldati non hanno impedito ai cittadini di difendersi da soli. Negli scontri a fuoco tra opposte fazioni sono morti due attivisti, uccisi da un giovane che ha dichiarato di voler aiutare la polizia, mentre pochi giorni dopo a Portland un sostenitore di Trump è stato abbattuto con un colpo di arma da fuoco esploso da alcuni attivisti antirazzisti.

Nel mezzo dei tumulti più gravi degli ultimi 50 anni, Trump ha visitato Kenosha, espresso solidarietà agli americani vittime di «terrorismo interno» e garantito che non permetterà ai violenti di conquistare gli Stati Uniti. Cosa che secondo lui avverrebbe invece se il 3 novembre «vincesse “Sleepy Joe”. Nella sua America, chi ruba, distrugge, vandalizza ha più diritti di chi rispetta la legge. È una pedina nelle mani dell’estrema sinistra».

Biden, invece, ha esitato e per giorni, mentre tutt’attorno infuriava la bufera, è rimasto nella sua casa-studio televisivo-ufficio nel Delaware, da dove si è raramente mosso dall’inizio della pandemia in marzo. Quando il New York Times ha scritto allarmato un articolo dal titolo “Come il caos a Kenosha sta già facendo cambiare idea agli elettori nel Wisconsin”, intervistando i commercianti sul piede di guerra contro i democratici che non si curavano di loro e dei loro negozi distrutti, George Packer, firma dell’Atlantic, ha preso carta e penna per vergare un appello disperato dal titolo: “Ecco come Biden perde”: «Niente danneggia una campagna elettorale come i pensieri illusori, le esitazioni timorose o la totale noncuranza che non è in grado di affrontare ciò che gli elettori vedono chiaramente. Biden, allora, dovrebbe andare immediatamente nel Wisconsin, lo Stato chiave che venne clamorosamente ignorato da Hillary Clinton. Dovrebbe incontrare la famiglia Blake, sostenerla e poi incontrare i piccoli proprietari di Kenosha i cui sogni sono stati infranti. E poi nelle strade bruciate, senza un copione, Biden dovrebbe parlare con il cuore alla città e al paese. Se lo farà potremmo non dover vivere altri quattro anni con Trump». Biden ha obbedito e ha visitato Kenosha, pur non potendo risolvere il problema di fondo: molto spesso i violenti sono davvero legati all’estrema sinistra che sostiene il Partito democratico, soprattutto l’ala vicina a Bernie Sanders.

I lunghi mesi passati a lisciare il pelo a quanti vogliono «abolire la polizia», o perlomeno tagliarle i fondi, sono il motivo per cui i sondaggi davano a marzo Biden avanti anche di 12 punti su Trump, mentre ora il vantaggio si è ridotto a 7. Soprattutto, dopo la rovinosa sconfitta della Clinton quattro anni fa, che ottenne 3 milioni di voti in più di Trump, ma negli Stati sbagliati, gli occhi dei sondaggisti sono puntati su quelli che mettono in palio la maggior parte dei delegati. Arizona, Florida, Georgia, Iowa, Michigan, Minnesota, Nevada, New Hampshire, North Carolina, Ohio, Pennsylvania, Texas, Virginia e Wisconsin: è in questi Stati che si giocherà la partita e in ciascuno di questi (a parte Georgia, Iowa e Texas) Biden è ancora davanti.

Ma come per i sondaggi nazionali, anche in quelli locali il suo vantaggio si assottiglia a due o tre punti percentuali. Five Thirty Eight considera ancora Biden prossimo presidente al 69 per cento, mentre il modello dell’Economist gli dà, addirittura, l’88 per cento di probabilità di vittoria. Ma questi numeri non convincono nessuno. I numeri dell’ex vice di Obama, pur restando superiori a quelli di Trump a livello nazionale e in diversi Stati chiave, sono pur sempre peggiori di quelli vantati dalla Clinton quattro anni fa, a questo punto della campagna elettorale.

Ci sono altri motivi per cui sarebbe sbagliato dare Trump per spacciato. Il presidente repubblicano, come confermato anche da un’analisi dell’Associated Press, ha realizzato quasi tutto quello che ha promesso in campagna elettorale. Aveva innanzitutto promesso di nominare due giudici di area conservatrice alla Corte suprema e lo ha fatto scegliendo Neil Gorsuch and Brett Kavanaugh. Aveva anche assicurato che avrebbe ritirato i soldati americani da «inutili guerre combattute a migliaia di chilometri di distanza da casa». Per quanto riguarda l’Iraq, quest’anno quattro basi militari sono passate sotto il controllo iracheno e centinaia di soldati americani, su 5.200, sono rientrati in patria. L’obiettivo del presidente è di ridurre della metà il contingente Usa. In Afghanistan, le truppe americane dovrebbero passare da 8.000 a 4.000 entro novembre.

Promesse mantenute

Anche sul terzo tema forte, l’immigrazione, il presidente americano ha sostanzialmente mantenuto quanto promesso. Se il Messico non ha in realtà mai pagato «per il nostro grande, bellissimo muro», i primi 700 chilometri (su 3.000) di fortificazioni saranno completati entro dicembre. In ambito sanitario, se ha cancellato l’obbligo introdotto da Barack Obama di acquistare un’assicurazione sanitaria, Trump non ha mai presentato come garantito un’alternativa per rimpiazzare l’Affordable Care Act. Per quanto riguarda l’economia, il radicale taglio delle tasse promesso è stato applicato (anche se leggermente annacquato) e negli ultimi quattro anni, pur non avendo raggiunto la crescita di oltre il 3,5 per cento di media del Pil come promesso, anche a causa della pandemia, ha comunque sfiorato il 3.

Chi ha votato Trump appoggiando la linea nazionalista “America First” in ambito commerciale e internazionale, è rimasto soddisfatto. Trump ha rinegoziato in meglio per gli Usa il trattato commerciale Nafta, è uscito dal Tpp, dal Consiglio Onu per i diritti umani e ha interrotto il finanziamento dell’Organizzazione mondiale per la sanità. Ha inoltre dichiarato una guerra commerciale senza precedenti alla Cina, senza riuscire però a migliorare l’ultra negativa bilancia commerciale con il Dragone, osteggiando e imponendo nuovi dazi all’Unione Europea.

C’è infine un ultimo elemento: Biden non dimentica mai di rivendicare la sua fede cattolica e i giornali come il Washington Post scrivono a più riprese che «porta sempre il rosario dovunque vada». Nei suoi spot elettorali, che pullulano di immagini mentre prega, parla delle religiose come di «donne adorabili» che simboleggiano «l’unico modo per rendere il mondo migliore e più sicuro: custodire i propri fratelli». Alle dichiarazioni, però, non sono mai seguiti i fatti: Biden, soprattutto se considerato in ticket con la vicepresidente scelta Kamala Harris, sostiene l’aborto su richiesta e senza limiti. Inoltre, all’indomani della sentenza della Corte suprema che ha riconosciuto il diritto delle Little Sisters of the Poor di non pagare alle dipendenti un’assicurazione sanitaria contenente contraccettivi e aborto, Biden ha promesso di «ripristinare la politica approvata da me e Obama», che Trump ha abolito. Non esattamente quel rispetto per la libertà religiosa che un elettore cattolico potrebbe aspettarsi.

Alla marcia per la vita

The Donald, al contrario, pur non avendo il curriculum da buon cristiano che circonda tanto Biden quanto il vicepresidente repubblicano Mike Pence, è stato definito da molti il presidente più pro life della storia americana. Ha infatti sostenuto tutte le cause care agli evangelici, che sono parte fondamentale della sua base conservatrice: ha partecipato in prima persona e parlato alla Marcia per la vita, ha nominato due giudici conservatori alla Corte suprema, ha smantellato una direttiva dell’amministrazione Obama a difesa dei finanziamenti a Planned Parenthood, colosso abortivo americano, ha messo il veto sull’erogazione dei fondi federali alle Ong che praticano aborti, ha ritirato i finanziamenti al fondo delle Nazioni Unite per la popolazione per non foraggiare programmi di pianificazione familiare, ha assistito gli obiettori di coscienza, ha donato una parte dei fondi Usaid ai cristiani perseguitati in Iraq e ha protestato contro leggi come quella di New York che consente l’interruzione di gravidanza fino al nono mese. Lo ha fatto per convenienza politica? Certo. Intanto i suoi elettori sanno che è pronto a rifarlo per altri quattro anni. La corsa per la Casa Bianca è più aperta che mai.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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