In America dove c’è una Degradopoli c’è un sindaco democratico
Articolo tratto dal numero di aprile 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Per aver definito il collegio elettorale di un deputato democratico particolarmente critico della sua amministrazione «un disgustoso buco infestato di topi e roditori», l’estate scorsa Donald Trump s’è beccato del «razzista» dalla presidente della Camera dei rappresentanti Nancy Pelosi e da Bernie Sanders, fino al 9 aprile scorso candidato democratico alla presidenza. Capitava infatti che il congressista, Elijah Cummings, fosse un afroamericano, e che lo fossero anche i due terzi degli abitanti di Baltimora, la città che Cummings (poi deceduto nel mese di ottobre) rappresentava.
In realtà Baltimora non compare più nella lista delle dieci città americane maggiormente infestate dai ratti, essendo passata dal 9° al 12° posto proprio nel corso del 2019. Ma Trump si è preso una facile rivincita sui suoi detrattori poco dopo, quando Orkin, la più grande azienda americana di disinfestazione, ha pubblicato la classifica stagionale (settembre 2018 – settembre 2019) delle città americane più infestate dai roditori: tutte le prime dieci hanno sindaci democratici ed eleggono rappresentanti democratici al Congresso. Si tratta, in ordine di grandezza della popolazione di ratti presente in rapporto al numero degli umani, di Chicago, Los Angeles, New York, Washington, San Francisco-Oakland-San José, Detroit, Cleveland-Akron, Minneapolis-St. Paul, Philadelphia e Atlanta.
Coronavirus permettendo, uno degli asset decisivi della strategia elettorale di Donald Trump per le presidenziali del novembre 2020 sarà l’enfatica denuncia delle condizioni disastrose delle città amministrate da sindaci del partito democratico.
Eletto nel 2016 grazie al sostegno di colletti blu, bianchi arrabbiati, evangelici e stati rurali pur avendo ottenuto quasi tre milioni di voti in meno della sua avversaria Hillary Clinton, il presidente in carica mira a conquistare voti urbani che potrebbero far passare dalla sua parte stati che nel 2016 votarono per la Clinton, come per esempio il Minnesota. Per ottenere questo risultato attacca anche le amministrazioni comunali di stati che non può sperare di conquistare, come la California.
Finito con Baltimora, Trump è passato a San Francisco, l’ultraprogressista città della West Coast che nel 2013 ha mandato al Congresso Nancy Pelosi. I tweet su quella che forse è la città più ricca e afflitta dalla diseguaglianza degli Stati Uniti si sono sprecati: «Il distretto elettorale di Nancy Pelosi in California è rapidamente diventato uno dei peggiori degli Stati Uniti per quanto riguarda i senza casa e il crimine»; «La pazza Nancy dovrebbe ripulire il suo sozzo distretto e aiutare i senzatetto che ci vivono. Organizzare primarie per Nancy?»; «Dovremmo lavorare tutti insieme a eliminare i rifiuti pericolosi per la salute e i posti dove sono concentrati i senza fissa dimora prima che la città tutta intera marcisca».
Stavolta le reazioni sono state meno vigorose che nel caso di Baltimora. Che San Francisco sia un caso disperato l’aveva scritto tre mesi prima il liberal New York Times per la penna di un suo editorialista:
«I problemi degli alloggi a prezzi accessibili e dei senzatetto hanno superato tutti i superlativi: quella che era una crisi adesso è un’emergenza percepita come la vetrina distopica della diseguaglianza americana. Basta guardare a San Francisco, la città di Nancy Pelosi. Ci vive un miliardario ogni 11.600 residenti, e il reddito annuo necessario per comprare una casa di medio prezzo ha toccato i 320 mila dollari. Eppure le sue strade sono un inferno di immondizie, aghi di siringhe ed escrementi, e ogni mattina porta nuove storie di orrore da un paesaggio infernale del tipo serie televisiva “Black Mirror”: veterani di guerra diventati senza fissa dimora sopravvivono rivendendo i rifiuti delle ville dei miliardari».
È sempre colpa del razzismo
C’è poco da dire: lo stato americano più saldamente in mano ai democratici è quello col maggior numero di homeless; dei 553 mila stimati a livello nazionale, 151 mila si trovano in California. Los Angeles ne conta fra i 50 e i 60 mila, ma in rapporto agli abitanti ce ne sono di più a Seattle (12 mila su 724 mila abitanti) mentre al terzo posto c’è San Francisco (10 mila su 884 mila abitanti).
Aggiungete New York (prima in numeri assoluti, con 62.590 senzatetto), San Diego, San José, Las Vegas, eccetera, e scoprirete che tutte le prime dieci città americane per numero di homeless hanno un sindaco democratico.
Lo stesso dicasi della criminalità violenta: con l’eccezione di Stockton, che ha visto alternarsi negli anni sindaci democratici e repubblicani, le prime dieci città degli Stati Uniti con la più alta percentuale di crimini violenti in rapporto al numero degli abitanti sono governate da sempre o da molti anni (mai meno di 28, spesso più di 50) dai democratici, a cominciare da Detroit (sindaco democratico dal 1962, 2.137 crimini violenti all’anno ogni 100 mila abitanti) per proseguire con St. Louis, Oakland, Memphis, Birmingham, Atlanta, Baltimora, Cleveland e Buffalo.
Lo stesso dicasi per gli omicidi: delle 20 città col più alto tasso di omicidi in rapporto al numero dei residenti una sola, Tulsa, è governata dai repubblicani, tutte le altre, a cominciare da St. Louis (66,1 omicidi ogni 100 mila abitanti nel 2017), sono amministrate dai democratici.
Delle 50 città più popolose degli Stati Uniti, ben 35 sono amministrate da sindaci democratici, fra le quali le prime sei (New York, Los Angeles, Chicago, Houston, Phoenix e Philadelphia). Ma gli alti tassi di criminalità e la bassa qualità dei servizi pubblici, soprattutto il basso livello delle scuole e il degrado ambientale, hanno prodotto nei decenni un progressivo spopolamento di molte grandi città amministrate dai democratici: nel 1950 Chicago aveva 3 milioni e 620 mila abitanti, oggi ne ha 2 milioni e 705 mila; Baltimora aveva 950 mila abitanti, oggi ne ha 600 mila; Detroit ne aveva 1 milione e 850 mila, oggi ne ha 673 mila; St. Louis ne aveva 856 mila, oggi solo 309 mila; anche piccole città come Camden, nel New Jersey, sono scese da 125 mila a 75 mila abitanti; solo Washington Dc mostra segni di ripresa: fra il 1950 e il 2000 era scesa da 800 mila abitanti a 600 mila, oggi è risalita a 705 mila.
La spiegazione che i liberal hanno dato di questo esodo di popolazione verso i sobborghi è stata il razzismo: man mano che la popolazione afroamericana delle città aumentava, i bianchi se ne andavano. Il caso più clamoroso sarebbe proprio quello di Baltimora, dove nel 1940 la popolazione bianca era l’80,6 per cento del totale, e quella afroamericana il 19,3 per cento, mentre oggi gli afroamericani sono il 63,7 per cento e i bianchi non ispanici il 28 per cento.
Ma se questo era vero fino all’inizio degli anni Settanta, la stessa cosa non si può dire degli ultimi quarant’anni: a partire dai primi anni Settanta, gli afroamericani hanno cominciato ad abbandonare le grandi città a tassi superiori a quelli dei bianchi. Le cinque città i cui sobborghi di classe media vedono il più rapido aumento di popolazione afroamericana sono Miami, Dallas, Washington, Houston e Atlanta – tutte amministrate dai democratici tranne la prima.
Scrive l’economista afroamericano Walter E. Williams:
«Si scopre, com’è ragionevole, che i neri, come i bianchi, vogliono scuole migliori e più sicure per i loro figli, e non amano essere rapinati o avere le loro proprietà vandalizzate. Ed esattamente come capita coi bianchi, se ne hanno i mezzi i neri non aspettano ad abbandonare le città turbolente».
Non nel mio cortile
Le amministrazioni democratiche si difendono dicendo che proprio a causa dell’esodo delle classi medie e medio-alte – prima bianche e poi anche afroamericane – dalle grandi e medio-grandi città la base fiscale su cui le amministrazioni possono agire si è ristretta, e solo gli interventi federali possono colmare il gap che si è aperto fra esse, dove le condizioni socio-economiche di molti abitanti sono precarie, e i sobborghi benestanti.
L’obiezione è valida, ma solo fino a un certo punto. Il sito web di consulenza finanziaria WalletHub di Washington Dc ha compiuto un’opera meritoria classificando le prime 150 città americane per popolazione in base alla loro buona o cattiva amministrazione. Per stilare una classifica obiettiva, il meno possibile condizionata dal fatto che non tutte le amministrazioni dispongono delle stesse risorse, WalletHub ha prima individuato per ogni città un “indice della qualità dei servizi urbani” basato sulla media ponderata di 37 indicatori suddivisi in sei categorie (stabilità finanziaria, educazione, salute, sicurezza, economia, infrastrutture e inquinamento). Il valore così ottenuto è stato poi diviso per il budget pro capite in dollari di cui l’amministrazione disponeva, in modo da ottenere un “indice della qualità dei servizi per dollaro speso”, che è quanto di più prossimo si possa immaginare a una valutazione obiettiva dell’efficienza di un’amministrazione.
I risultati ottenuti sono curiosi ed eloquenti allo stesso tempo: delle dieci città che mostrano il miglior rapporto fra soldi spesi e servizi erogati, quattro hanno un sindaco democratico, quattro hanno un sindaco repubblicano, e due hanno sindaci “non-partisan”; delle dieci città col peggior rapporto fra soldi spesi e servizi erogati, quelle che possiamo definire dunque le città peggio amministrate d’America, nove hanno un sindaco democratico, e solo una, Gulfport, un sindaco repubblicano.
Le nove città della lista sono Washington, San Francisco, Chattanooga, New York, Detroit, Oakland, Flint, Hartford e Cleveland. Insomma, anche quando i soldi ci sono (è certamente il caso di Washington, San Francisco e New York), non è affatto detto che i sindaci democratici li spendano al meglio.
Secondo Farhad Manjoo, editorialista del New York Times, la cattiva amministrazione delle città a guida democratica dipende dal fatto che i vertici del partito sono costituiti da liberal benestanti che rappresentano gli interessi dei liberal benestanti preoccupati di mantenere alta la qualità dei propri quartieri a spese dei vicini quartieri degradati.
Secondo Manjoo la prima politica progressista da fare sarebbe quella di costruire edilizia popolare almeno nelle zone perimetrali dei quartieri benestanti a bassa densità abitativa, ma a questo i democratici si oppongono tanto quanto i repubblicani, come dimostra la bocciatura nel gennaio scorso della proposta di legge che avrebbe permesso in tutta la California di costruire palazzine di cinque piani nei più importanti punti di transito delle città: benché nel senato dello stato i democratici disponessero di 29 seggi su 40, i voti favorevoli si sono fermati a 18!
Una votazione che ha convalidato quello che Manjoo aveva scritto qualche tempo prima:
«Mentre i progressisti maneggiano le parole “apertura” e “inclusione” come una clava contro il presidente Trump, giunti a Nob Hill e a Beverly Hills la abbandonano. (…) Quello che i repubblicani vogliono fare con l’agenzia di controllo dell’immigrazione e col muro al confine, i ricchi democratici progressisti lo stanno facendo con la pianificazione urbana e con la sindrome Nimby (“non nel mio cortile”, ndt). Preservare il “carattere locale,” conservare il “controllo locale,” mantenere la disponibilità di alloggi scarsa e inaccessibile – gli scopi delle due parti sono in realtà lo stesso: tenere la gente fuori. Diciamo che siamo favorevoli all’immigrazione, che accogliamo i rifugiati, ma occorre pagare un biglietto di entrata da 2 milioni di dollari per vivere qui; altrimenti potete usare questo pezzo di marciapiede per piantarci una tenda».
Foto Ansa
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