Trevor Phillips: «Black Lives Matter usa noi neri come pedine per l’egemonia»
Articolo tratto dal numero di luglio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Tutto a Bristol, città portuale di mezzo milione di abitanti del Sudovest dell’Inghilterra, parla di Edward Colston. All’imprenditore e deputato vissuto a cavallo del XVII e XVIII secolo sono intitolati teatri, edifici residenziali, vie, corsi e vetrate in più di una chiesa. Il 13 novembre si celebra il Colston Day e in quel giorno ai bambini, soprattutto della scuola Colston, si usano distribuire i dolcetti Colston, impastati con frutta candita e spezie dolci. Se tutto a Bristol evoca la sua memoria è perché negli anni ha finanziato con l’equivalente odierno di 13 milioni di euro scuole, orfanotrofi, chiese, ospedali e case di edilizia popolare. Colston è stato un grande filantropo, insomma, ma la sua fortuna non è priva di ombre: per 12 anni, infatti, ha detenuto una quota molto redditizia nella Royal African Company, che commerciava in avorio, oro e soprattutto schiavi. A migliaia morirono sulle navi che procurarono al mecenate i capitali che utilizzò per beneficiare tutta la città.
È per questo che il 7 giugno centinaia di manifestanti aderenti al movimento Black Lives Matter (Blm, le vite dei neri contano) – che negli Stati Uniti ha inscenato proteste pacifiche e violente per vendicare la morte di George Floyd, afroamericano brutalmente ucciso il 25 maggio a Minneapolis dal poliziotto bianco Derek Chauvin – hanno abbattuto dal suo piedistallo la statua bronzea di Colston, l’hanno trasportata fino al porto per poi gettarla in acqua tra grida festanti e flash di smartphone. Giustizia, anzi, uguaglianza è stata fatta? «Assolutamente no. Temo che le persone di colore siano solo pedine in una più ampia guerra anticapitalista che, almeno qui nel Regno Unito, ha lo scopo ultimo di distruggere la società occidentale».
Sono queste le critiche che l’ex zar britannico dell’uguaglianza Trevor Phillips rivolge al movimento Blm parlando con Tempi, e il curriculum dell’ex politico non può certo far pensare a un caso di fuoco amico. Phillips, 66 anni, il più giovane di 10 fratelli e figlio di emigrati dalla Guyana britannica, è stato nominato nel 2006 nel Regno Unito primo presidente a tempo pieno della commissione per l’Uguaglianza e i diritti umani, incaricata di promuovere e far rispettare leggi contro la discriminazione razziale. Per la sua produzione giornalistica e televisiva ha vinto numerosi premi, è nel consiglio di amministrazione di una mezza dozzina di società, compreso l’Indice sulla censura, che monitora lo stato di salute della libertà di espressione e di stampa nel mondo.
Per le sue posizioni schiette e radicalmente lontane dai diktat del politicamente corretto Phillips si è attirato le ire di larghi strati della società. Dopo aver guidato l’assemblea di Londra come membro dei laburisti dal 2000 al 2003, è stato sospeso dal partito con la «folle accusa» di islamofobia a marzo di quest’anno, dopo aver scioccato gli ambienti liberal con le sue accuse al multiculturalismo.
Colston era uno schiavista. Quando ha visto la sua statua cadere, qual è la prima cosa che ha pensato?
Grandioso.
E la seconda?
A che cosa serve? Rinominare una scuola o una via, imbrattare una statua o una targa non creerà neanche un posto di lavoro in più per i neri, né farà cambiare atteggiamento a un singolo poliziotto. La maggior parte delle azioni di protesta che vediamo in queste settimane serve a far sentire meglio i bianchi. Ma per i neri non cambia niente.
Perché?
Questa è una guerra di posizione per la conquista di quella che Antonio Gramsci chiamerebbe egemonia, anche se esito a usare questa parola. Chi decide come bisogna pensarla su un argomento, quale linguaggio si deve usare, vince. Il problema è che, temo, alla stragrande maggioranza delle persone che mettono in scena questa guerriglia non interessa minimamente l’uguaglianza per le persone di colore, che vengono usate come pedine.
Lei avrebbe buttato giù la statua di Edward Colston o quella di un altro personaggio coinvolto nella tratta degli schiavi?
Mettiamola così: se potessi decidere, qui a Londra, se rimuovere 50 statue di commercianti di schiavi o mettere cinque persone di colore nei consigli di amministrazione di importanti aziende del paese, di certo non sceglierei le statue.
Perché?
Perché il punto è la distribuzione del potere, mentre chi alza una cortina fumogena giocando con i nomi delle vie, non vuole condividere il potere coi neri ma solo forzare la decostruzione della società.
Il razzismo sembra diventato ormai l’unica chiave di lettura della storia: è stata intaccata la memoria di Cristoforo Colombo, san Junípero Serra, George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Winston Churchill, tanto per fare qualche esempio.
Il primo problema di questa gente che vuole cancellare la storia è che non conosce la storia. Non hanno la minima idea di ciò che è successo in passato. Hanno imbrattato la statua di Churchill qui nel Regno Unito ed è inammissibile: mio padre era nell’esercito durante la guerra. Molte persone provenienti dai Caraibi hanno vestito la divisa come volontari. Potevano non farlo, ma hanno scelto di combattere in Europa soprattutto dopo aver ascoltato i discorsi di chi? Di Churchill. Vada in Jamaica e scoprirà che Winston è uno dei nomi maschili più popolari. Sa perché?
Per Churchill?
Ovvio. Agli occhi della maggior parte dei neri della mia generazione e non solo, Churchill è un eroe perché si è battuto contro il fascismo, che avrebbe eliminato le persone come me. Chiediamo ai figli dei neri che hanno combattuto per questo paese, e sono morti, che cosa pensano di Churchill. Nessuno le dirà che era un razzista. Solo un pazzo lo direbbe. O, appunto, un ignorante.
Molta gente, però, pensa di correggere così gli errori compiuti in passato.
Ma non si può applicare alla storia il nostro modo di ragionare di oggi. Soprattutto noi non possiamo rimuovere tutto ciò che ci ricorda che cosa è avvenuto in passato e pretendere che non sia mai esistito. Se eliminassimo tutti i simboli dello schiavismo, sa che cosa succederebbe? Che tra una o due generazioni nessuno ricorderebbe più di che cosa è capace l’essere umano. E allora verrà il giorno in cui uno studente, leggendo su un libro la parola “schiavitù”, chiederà: «Che cos’è? Non ne ho mai sentito parlare». È questo che vogliamo?
In tanti le risponderebbero di sì.
Faccio un paragone: quale persona nel pieno possesso delle sue facoltà mentali raderebbe al suolo il lager di Auschwitz perché rappresenta un insulto nei confronti degli ebrei? Questo atteggiamento nasconde anche un altro errore.
Quale?
Abbattere una statua è un modo per lavarsi la coscienza. Non si può dare la colpa per gli errori del passato a singoli individui, a pochi uomini “cattivi”. È solo un tentativo di deresponsabilizzarsi.
Il nuovo movimento antirazzista non si ferma davanti a nulla. Ora vuole cancellare l’inno ufficioso della squadra di rugby inglese: il classico dello spiritual nero Swing Low, Sweet Chariot. Allo stesso modo era riuscito a far censurare per qualche settimana il colossal Via col vento.
Anche in questo caso, non si conosce la storia. Questa canzone non veniva cantata dagli schiavi nei campi, è stata scritta dopo, non c’entra niente con la schiavitù. Io sono cresciuto con questo inno, che cantavamo in chiesa, fa parte della nostra tradizione. È una canzone di liberazione, non di oppressione e schiavitù. Il paradosso è che questo movimento si sta ritorcendo contro i neri, perché ora ci sono dei bianchi che vogliono decidere quale parte della nostra cultura è accettabile e quale no.
Lei ha dichiarato in un’intervista che «non esiste al mondo paese migliore per essere neri del Regno Unito». E si è attirato una valanga di critiche.
Da moltissima gente che non ha mai messo piede a Londra. Io sono un giornalista e per lavoro sono stato, credo, in ogni singolo paese europeo. Ho condotto studi sul razzismo e so quel che dico. Chiedete a Mario Balotelli se per lui è più facile giocare davanti a un pubblico inglese o italiano. La risposta è scontata. E lo stesso vale per Moldavia, Francia, Germania, Ucraina, Polonia.
Nel Regno Unito non esistono forse problemi di razzismo?
Io non ho detto questo, ma solo chi non ha mai vissuto in altri paesi dell’Unione Europea può pensare che siano migliori. Basta un esempio: qual è l’unico paese in Europa che sa se i bambini neri vanno peggio a scuola degli altri o se le persone di colore trovano meno lavoro? L’Inghilterra. E il motivo per cui lo sa è che raccoglie le statistiche, le pubblica e poi si chiede come migliorare le cose. Nessun altro paese in Europa raccoglie i dati e non lo fa perché semplicemente non gli importa.
Lei ha scritto sul Times: «Queste proteste non riguardano affatto l’uguaglianza. Sono invece una feroce battaglia per il diritto di descrivere il mondo senza che la propria visione venga contraddetta». La libertà di espressione è in pericolo?
Sì. C’è una pericolosa tendenza all’autocensura nelle università, nei media e nelle scuole. Trovo sconvolgente che le istituzioni non proteggano più chi avanza argomenti che gruppi di interesse molto rumorosi percepiscono come offensivi. Come ai tempi di Galileo, c’è la libertà di parola e di espressione: poi però rischi di perdere il lavoro se dici la cosa “sbagliata”.
Sta pensando al caso della scrittrice J.K. Rowling, la madrina di Harry Potter, che è stata subissata di critiche dalla galassia Lgbt per aver detto che «le persone che hanno le mestruazioni» hanno un nome e quel nome è «donne»?
Il suo caso è folle ed esemplifica quello che stavo cercando di dire: è forse illegale sostenere che esiste il sesso biologico? No. Certo, c’è chi non è d’accordo, così come ci sono alcuni che credono che la Terra sia piatta. Nessuno dovrebbe essere denunciato per le sue idee, eppure ci sono persone che vogliono zittire Rowling, vogliono che non possa esprimere la sua opinione. Hanno cercato addirittura di farla licenziare.
Senza successo.
È chiaro che nessun editore sano di mente licenzierebbe mai la scrittrice che vende di più al mondo, ma non tutti sono famosi come lei.
Che cosa teme?
Esiste un movimento che vuole rendere socialmente inaccettabile pensare e parlare in modo diverso rispetto a quella che chiamo la “nuova ortodossia”. Qualcuno vorrebbe anche chiudere in prigione chi non si adegua. Sono molto preoccupato da questa deriva.
Lei ne sa qualcosa: a marzo è stato sospeso dal partito laburista con l’accusa di islamofobia. Che cosa ha combinato?
Dovrebbe chiederlo al partito laburista: trovo tutta questa faccenda sconcertante, sono vittima di una nuova inquisizione. Hanno compilato un rapporto su di me di pagine e pagine, in pratica sono stato scomunicato. Mi accusano ad esempio di aver citato in un pamphlet del 2016, intitolato Razza e fede: il silenzio assordante, il famoso discorso di Enoch Powell del 1968 (nel quale preconizzava un futuro di problemi razziali e rivolte urbane per il Regno Unito se il paese non avesse chiuso le porte all’immigrazione, ndr). Parlare del problema razziale nel Regno Unito senza citare Powell è come disquisire oggi di politica in Italia senza citare il Movimento 5 stelle. È impossibile. Non mi accusano di sostenere la sua posizione, mi accusano di avere menzionato il suo nome. In pratica, a detta del partito laburista, avrei dovuto cancellarlo dalla storia.
Doveva simbolicamente abbattere la sua “statua”.
Esatto. Pensavo che queste cose succedessero solo nel mondo immaginato da George Orwell o in quello costruito da Iosif Stalin.
Lei però ha anche citato gli abusi sessuali in città come Rotherham, sottolineando che i colpevoli venivano da un background islamo-pakistano.
Sono un giornalista, ho fatto il mio lavoro. Ho detto anche che i musulmani sono diversi, e per me che sono cristiano resta la verità. Se vogliamo rispettare davvero i musulmani, dobbiamo smetterla di far finta che non siano ciò che sono. Diciamo le cose come stanno: la maggior parte dei musulmani ritiene che l’omosessualità dovrebbe essere illegale. Se io non riconosco che questa è la verità, io non li rispetto.
Il partito laburista sembra pensarla diversamente.
Loro non mi accusano di sbagliare, mi accusano di eresia. Io non voglio criticare i musulmani, ma se non si osservano i fatti, è impossibile poi affrontare i problemi. Mentre le autorità si voltano dall’altra parte, in tante scuole inglesi gli insegnanti gay vengono cacciati perché i genitori musulmani non li vogliono.
Lei crede davvero che oggi sia possibile difendere un qualsivoglia valore nell’epoca del multiculturalismo e del relativismo?
Io credo sia ancora possibile, ma la verità è che il partito laburista non lo sta facendo. Il motivo del nostro conflitto è che loro vogliono evitare il problema di fondo e pensano che facendo finta di niente, prima o poi, scomparirà. Io non sono pronto a restare in silenzio, invece.
L’intellettuale francese Alain Finkielkraut ha definito il nuovo antirazzismo come una forma di «autorazzismo» dell’Occidente, che cerca di cancellare la propria storia e di conseguenza autodistruggersi. È d’accordo?
Parlo per il Regno Unito: qui Blm persegue un’agenda anticapitalista. Avanza richieste che prevedono la distruzione della società attuale al fine di ricostruirla in modo diverso, anche se non ho ancora capito come. In generale gli attivisti sembrano pensare che sia impossibile estirpare il razzismo fino a quando capitalismo e libero mercato dominano la società. Io non so se hanno ragione, ho solo l’impressione che tanti militanti non siano affatto antirazzisti, ma usino il problema del razzismo per attaccare il capitalismo.
E lei che cosa vuole?
Io voglio vera uguaglianza e non sono assolutamente pronto ad aspettare il successo di una rivoluzione elitista per ottenerla.
Che cosa propone allora per promuovere l’uguaglianza nella società?
Tutti possiamo fare qualcosa. Le celebrità devono essere meno ipocrite: invece che lamentarsi possono far inserire nei loro prossimi contratti discografici e cinematografici una clausola di inclusività. Una persona che conosco ha preteso per guidare un importante gruppo imprenditoriale di avere nella sua squadra anche persone di colore. E se l’è fatto scrivere nel contratto.
E le persone comuni?
È sufficiente che la prossima volta che sentono qualcuno fare battute razziste a un matrimonio, o in qualunque altra occasione, invece di lasciar correre, lo sfidino apertamente. Finiti i flashmob e gli hashtag, dobbiamo capire che tutti abbiamo la responsabilità di fare la differenza dove viviamo e lavoriamo.
Foto Ansa
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