Non c’è più spazio per il dibattito nemmeno nei giornali
Anche il Wall Street Journal si dice preoccupato per il dilagare dell’intolleranza degli antirazzisti. Lunedì il quotidiano americano ha pubblicato un editoriale dedicato ai recenti casi di due storici redattori di importanti testate di tendenza liberal «caduti per violazioni dell’ortodossia progressista», vicende definite senza mezzi termini «epurazioni» che secondo il Wall Street Journal non dovrebbero essere «motivo di esultanza» per nessuno. Anzi.
I casi in questione sono quelli Stan Wischnowski del Philadelphia Inquirer e di James Bennet del New York Times. Come abbiamo raccontato ieri in questo articolo, entrambi si sono dovuti dimettere dai propri incarichi – rispettivamente caporedattore e direttore della sezione opinioni – per aver lasciato passare idee critiche nei confronti delle rivolte scoppiate in diverse città degli Stati Uniti dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd a opera di un poliziotto bianco, e presto degenerate in violenze, saccheggi, devastazioni. Le loro dimissioni, seguite a sommosse interne delle rispettive redazioni, «sono un’altra pietra miliare nella marcia della politica identitaria [identity politics] e della cultura della cancellazione [cancel culture] attraverso le nostre istituzioni liberali, e l’informazione e la democrazia americane ne usciranno peggiorate», scrive l’Editorial Board del Wall Street Journal.
LA “COLPA” DI BENNET
Il quotidiano si sofferma in particolare sul destino di Bennet, che in effetti ha suscitato parecchio scalpore in America e non solo, visto che il poveretto ha avuto la sola “colpa” di autorizzare la pubblicazione di un commento del senatore repubblicano Tom Cotton a favore dell’intervento dell’esercito per sedare le rivolte in corso. L’ironia della storia è che il New York Times, pur essendo considerato la “bibbia progressista” e non avendo mai nascosto un orientamento marcatamente liberal, si è sempre potuto vantare della propria apertura al dibattito. Tanto è vero che la sezione degli “op-ed”, fino alla settimana scorsa guidata da Bennet, è (era?) pensata proprio per ospitare idee non per forza appiattite sulla linea del giornale.
UN OSPITE NON GRADITO
Inizialmente (e coerentemente) difeso dallo stesso Arthur Gregg Sulzberger, editore del New York Times in persona, Bennet è stato rapidamente scaricato davanti al montare delle lagnanze interne e al mezzo ammutinamento di massa dei redattori del quotidiano. Commenta il Wall Street Journal:
«Una sezione espressamente dedicata alle opinioni indipendenti è stata sconvolta perché i guerrieri della giustizia sociale [social-justice warriors] in redazione si sono opposti a un unico articolo in cui era esposto un punto di vista sostenuto secondo i sondaggi da decine di milioni di americani».
L’ARREMBAGGIO IDENTITARIO
Ormai nei giornali non comandano più i direttori, ma le orde dei twittaroli indignati, continua il Wall Street Journal. E se le due epurazioni portano alla luce del sole un irrigidimento ideologico della sinistra che tanti denunciano da tempo, c’è poco da sghignazzare a destra: nessuno dovrebbe rallegrarsi del fatto che il liberalismo americano stia perdendo i suoi «bastioni liberal» tra gli organi di informazione, ammonisce l’editoriale.
«Tutto questo mostra fino a che punto il giornalismo in America è ora dominato dalle stesse condanne morali, pretese di “spazi sicuri” e dogmatiche dottrine identitarie iniziate nelle università. I promotori di questa linea politica ora dettano legge in quasi tutte le principali istituzioni culturali americane: musei, organizzazioni filantropiche, Hollywood, case editrici, perfino i talk-show della notte.
Su questioni ritenute sacrosante – e l’idea che l’America sia razzista fino al midollo oggi è una di queste – non c’è spazio per il dibattito. Devi ammettere di non essere stato capace di apprezzare l’ortodossia e fare penitenza, altrimenti non sopravviverai in questo lavoro».
Foto Ansa
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