L’allerta terrorismo in Italia, dopo la doppia strage di Parigi, è elevata alla massima potenza. I servizi di intelligence hanno confermato di aver ricevuto segnalazioni dalla Cia e dal Mossad riguardo a possibili attentati sul suolo italiano che però non individuano concreti elementi di rischio, mentre la notizia riportata ieri dalla tedesca Bild di un altro allarme su Roma lanciato dalla National Security Agency statunitense è invece stato smentito dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che tuttavia ha ricordato come «il Vaticano sia stato più volte citato nei messaggi del Califfo, la bandiera nera sul cupolone non è che un chiaro messaggio». Una smentita è arrivata anche dal portavoce della Santa Sede padre Federico Lombardi, che ha dichiarato: «Teniamo un atteggiamento di prudenza e di attenzione, ma non ci sono segnalazioni di rischi specifici. Il Vaticano e il Papa possono essere obiettivi sensibili come naturalmente lo sono tutte le istituzioni, in Italia come nel resto dell’Europa. Ma non è il caso di alimentare situazioni di particolare allarme».
Al di là degli allarmismi e delle necessarie smentite, però, che le forze dell’ordine del nostro paese siano state allertate a un livello superiore al normale è confermato. «Il lavoro che stanno effettuando in queste ore è legato al mercato nero delle armi e alle fonti informative interne alla comunità islamica», spiega a tempi.it Alfredo Mantici, direttore di Lookout news (osservatorio sull’intelligence, geopolitica e crisi mondiali), che ha alle spalle un’esperienza trentennale nei servizi segreti italiani (Sisde) fino al 2008.
Come stanno lavorando i nostri servizi di intelligence dopo le segnalazioni di possibili attentati anche a Roma e in Italia?
Sono due i profili di prevenzione su cui stanno lavorando in questi giorni. Uno è quello di polizia, con l’individuazione di luoghi sensibili e la prevenzione. A livello d’intelligence inoltre si stanno mobilitando tutte le reti informative per la segnalazione di qualsiasi tentativo di attentato. Cosa significa questo? A Parigi abbiamo visto in azione tre terroristi armati di kalashnikov e lanciarazzi. Armi del genere non si comprano al supermercato e i piccoli criminali possono spacciare pistole, non certo Rpg. Sono armi vendute da precisi circuiti, perciò i servizi sanno che occorre agganciare questi ambienti per monitorare la situazione. Qualunque atto intendesse portare a termine un nucleo jihadista, dovrebbe farlo attraverso esplosivo e armi particolari: non è difficilissimo tenerli sotto l’attenzione dell’intelligence. La seconda cosa da fare assolutamente è controllare nei centri islamici il circuito di persone che non vanno solo a pregare, ma discutono di che fare con la società occidentale. Per far questo occorrono fonti umane da disseminare nei centri. Gli islamici moderati dovrebbero essere il nostro principale strumento per fronteggiare la minaccia islmaica dall’esterno.
La nostra intelligence dispone già di una rete di informatori tra gli islamici moderati nel nostro paese?
Non so se la rete è stata creata per tempo, ma sicuramente è ciò a cui si sta lavorando in questi giorni. Sin dall’inizio del 2008, quando ancora lavoravo al Sisde, il servizio segreto aveva già una rete di informatori nei luoghi più sensibili. In più, a differenza di quella francese, la nostra intelligence aveva anche un eccellente rapporto con i servizi marocchini e algerini, i migliori del Nord Africa. Sono rimasto molto stupito che i francesi abbiano preso sottogamba le informative circa un grosso attacco terroristico in preparazione che sarebbero giunte loro, intorno al 6 gennaio, proprio dai servizi algerini. Se davvero le cose sono andate così, è stato un grave errore.
Oggi si parla del ruolo essenziale svolto da internet e dai social network nella fase di reclutamento, indottrinamento e primo addestramento delle nuove leve jihadiste, oltre che per la gestione dei contatti e la diffusione delle rivendicazioni. Cosa si può fare su questo fronte?
Il monitoriaggio del web teoricamente è semplice, ma operativamente è un incubo, perché sono necessarie decine e decine di persone che parlino arabo e che possano lavorare 24 ore su 24. Non è facile creare una struttura del genere: per quanto ne so, nel nostro paese esistono già piccoli nuclei ben preparati e specializzati in questo tipo di osservazione e controllo. Ma dal punto di vista quantitativo non penso che le nostre risorse siano adeguate alla minaccia jihadista.
In base alla sua esperienza, quali reputa siano state le pecche e i punti di forza dell’intelligence e delle forze dell’ordine francesi nella risposta all’attacco?
Le pecche dell’intelligence francesi sono state enormi. Non è stata fatta una valutazione adeguata e concreta della minaccia proveniente dal jihadishmo. Le persone protagoniste degli attentati, i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly, erano tutte ben note ai servizi e alla polizia. Eppure non erano controllate e persino la redazione di Charlie Hebdo, su cui erano giunti segnali di allarme, di fatto era stata abbandonata. Non si può definire protetto un obiettivo sorvegliato da due poliziotti, che infatti purtroppo hanno perso la vita. Quanto alla reazione, ritengo che invece la risposta sia stata ben coordinata ed efficace.
E riguardo all’Italia? Quali possono essere i nostri punti di forza e quali quelli deboli?
Noi abbiamo strutture investigative ben radicate nel territorio per la polizia di prevenzione. Ritengo, spero, che anche la nostra intelligence sia ben radicata sul territorio. Sono invece certo che i servizi controllino i grandi centri nevralgici dell’islamismo nel nostro paese. Quanto ai punti deboli, come in tutti i paesi occidentali anche da noi si è liberi di spostarsi e di parlare ed esprimere qualsiasi pensiero, persino quello di abbattere il nostro sistema. Nel nostro paese il diritto irrinunciabile alla privacy è tutelato più della sicurezza, dobbiamo ragionare su come equilibrare le due esigenze.