«Scordatevi Martin Luther King: i nuovi antirazzisti odiano l’ideale americano»
Mattia Ferraresi ha trascorso dieci anni negli Stati Uniti come corrispondente del Foglio, spostandosi fra New York, Washington, Boston e Harvard. Rientrato in Italia, sarà il caporedattore del quotidiano Domani che andrà in edicola all’inizio dell’autunno. Oltre ai numerosi servizi, ha scritto libri come La febbre di Trump. Un fenomeno americano e Politica americana. Una piccola introduzione. Con lui abbiamo parlato di quello che sta succedendo in queste settimane negli Stati Uniti.
Cosa ci insegnano il caso George Floyd e l’ondata di proteste che è seguita? Che gli Stati Uniti hanno un problema con la loro polizia, con il razzismo nei confronti degli afroamericani o con i riflessi di una violenza endemica?
Ci insegna che l’America ha un problema con la violenza che è in gran parte radicato nelle sue origini: l’America nasce con il mito della frontiera, con l’idea che si deve combattere un ambiente ostile e sottometterlo per affermare la propria creatività, la propria capacità di arricchirsi e di creare civiltà. Una delle conseguenze di questo mito delle origini è l’alto tasso di violenza sia legittima che illegittima, cioè l’uso della forza da parte delle forze dell’ordine e la violenza della criminalità. Gli Stati Uniti sono paese con molte armi nelle mani di civili e poliziotti dove le cronache raccontano spesso di sparatorie e dove il tasso di incarcerazione è il più alto del mondo fra i paesi che producono statistiche affidabili. La polizia si muove in questo contesto: una società in cui la violenza, per difendere dei beni o per acquisirli, è parte della costituzione materiale degli Stati Uniti.
Poi ci sono altri aspetti. Uno, secondo me il più rilevante per capire che cos’è la polizia in generale in America, è il fatto che per generazioni e generazioni di immigrati italiani e irlandesi, specialmente nelle grandi città, hanno visto nell’arruolamento nella polizia un modo per uscire da una condizione di inferiorità nella quale erano considerati cittadini di serie B perché non erano anglosassoni o perché non erano protestanti. Questo ha generato un forte spirito di corpo ma anche un senso di rivalsa verso il resto della società che è sfociato in un esercizio del proprio potere in modo a volte arbitrario. Un terzo elemento per capire il comportamento della polizia, è la presenza delle armi. Ogni poliziotto sa che facilmente si troverà ad avere a che fare con civili armati mentre è in servizio, perché negli Stati Uniti circolano circa 300 milioni di armi da fuoco. Questo fatto genera non solo un atteggiamento di costante diffidenza nel rapporto coi cittadini, ma anche una facilità nel ricorrere a propria volta alle armi. Ha pure generato nel tempo una lunga serie di leggi a livello statale e federale che consentono ai poliziotti di non preoccuparsi dell’eventuale uso eccessivo della forza da parte loro, giustificato dai rischi ai quali sono esposti a causa della diffusione delle armi.
Io vedo questi elementi tutti insieme sullo sfondo di una società in cui la violenza è una presenza inesorabile. Non sono picchi occasionali, la violenza non è un fenomeno confinato soltanto in certe aree e contesti sociali: è una grande presenza che aleggia ovunque. E così si arriva alla questione razziale: la polizia è da sempre largamente bianca, e riflette un po’ la segregazione di fatto vigente nella società americana è fatta. L’America melting pot, società multiculturale dove le differenze si amalgamano, è una favola che è bello ripetere, ma che è lontana dalla realtà, fatta di contraddizioni e di segregazioni. L’America è un mosaico dove le tessere restano scomposte anche se sembrano configurare una certa immagine, e la polizia è una delle tessere di questo mosaico, ma che è un mosaico.
Ma la polizia non è multirazziale, come la vediamo nei telefilm? Oppure è eccessiva la presenza di alcune componenti etniche?
Certo, da alcuni anni ci sono anche poliziotti afroamericani o di origine asiatica, ma quello del poliziotto non è il mestiere che tradizionalmente un rappresentante delle minoranze si trova a fare. Nelle grandi città le minoranze etniche nella polizia sono sottorappresentate, e chi fra loro si arruola sa che c’è una tradizione preesistente che non è la sua tradizione. Non basta un meccanismo di quote che istituisce una parità formale, quando il tema identitario bianco, non ovunque ma in sacche importanti, all’interno della polizia è ancora vivo.
Quasi tutte le più importanti e popolose città americane sono governate, in alcuni casi da molti anni, da sindaci democratici. Minneapolis, la città del fattaccio, ha un sindaco democratico. Le città governate dai democratici hanno tutte seri problemi di povertà, di violenza criminale e di brutalità poliziesca che colpisce le minoranze etniche. Eppure non sono città governate dal Ku Klux Klan, sono città governate da politici ufficialmente antirazzisti. Come si spiega questo paradosso?
L’eredità del partito democratico in materia razziale non è al di sopra di ogni sospetto: fino a cinquant’anni fa esprimeva candidati favorevoli alla segregazione, come George Wallace in Alabama. Il Sud segregazionista che ha combattuto il movimento per i diritti civili, e in molti casi continua a resistere, è un mondo che è stato e ancora è rappresentato talvolta dal partito democratico. Il questione razziale riguarda tutti gli americani, repubblicani, democratici o indipendenti, e il problema del razzismo è un problema diffuso nel quale il partito democratico ha delle responsabilità enormi. Molti governatori e molti sindaci delle città più importanti, che sono in percentuale altissima governate stabilmente dai democratici, hanno avuto grosse responsabilità nel concepire e approvare leggi che hanno contribuito a rendere strutturali certe forme di segregazione e ad alimentare il pregiudizio razziale.
Faccio un esempio: nei primi anni Settanta il governatore democratico dello stato di New York, Nelson Rockefeller, fece approvare una legge che ha avuto grosse conseguenze sulla questione razziale: la legge sulle sentenze minime di incarcerazione per reati non violenti. Impone, senza possibilità di condizionale o di pene alternative, che certi reati vengono puniti con il carcere, almeno per un minimo di tempo. Fra questi reati c’è la detenzione di piccole quantità di droga, anche solo per uso personale: il consumo di droga veniva punito in un certo modo se si trattava di cocaina, mentre per il crack la pena detentiva era 10-15 volte superiore a quella per la cocaina. Ora, la cocaina è notoriamente la droga dei bianchi ricchi, il crack è un prodotto usato dagli afroamericani. Quella legge ha generato immediatamente, in pochissimi anni, un tasso di incarcerazione degli afroamericani e degli ispanici altissimo, creando una situazione molto difficile da cambiare. L’attuale candidato democratico alla presidenza Joe Biden è stato un grandissimo sponsor di quella legge, che voleva introdurre a livello federale. Ci sono centinaia di leggi di questo tipo che hanno approfondito la segregazione razziale nelle grandi città. In una città come Chicago, da decenni dominata dai democratici, perfino il modo in cui sono state disegnate le strade e i confini dei distretti scolastici favoriscono la diseguaglianza fra gli afroamericani.
In queste settimane abbiamo sentito ripetere tantissime volte le espressioni “razzismo istituzionale” e “razzismo strutturale” per parlare di situazioni che riguardano la minoranza afroamericana negli Stati Uniti. Ora, gli Stati Uniti sono un paese che ha avuto un capo dello Stato afroamericano, una donna ministro degli Esteri afroamericana, un capo di Stato maggiore delle forze armate afroamericano. I neri non sono esclusi dal governo, dalle scuole e dai quartieri dei bianchi per legge, come accadeva nel Sudafrica dell’apartheid: il movimento per i diritti civili degli anni Sessanta ha fatto pulizia su questo versante. Che cosa significa razzismo istituzionale negli Stati Uniti oggi? Dobbiamo andare a cercarlo nelle delibere municipali?
In parte sì. Chi afferma che negli Stati Uniti il razzismo è sistemico, sostiene che il riconoscimento dei diritti civili ha rappresentato solo una dichiarazione di formale uguaglianza di fronte alla legge che non ha cambiato lo stato di fatto: un afroamericano fatica a trovare lavoro, ad accedere a certi posti di responsabilità. In questa visione c’è un elemento di verità, anche se io non credo che il razzismo definisca l’esperienza americana nella sua complessità in modo esauriente: non credo che l’unico tema americano sia la lotta fra oppressori e oppressi in chiave razziale. Però ci sono ingiustizie evidenti: la giustizia penale e il sistema carcerario, ispirati alla giustizia retributiva o meglio vendicativa, hanno estremamente penalizzato le minoranze.
Ha scritto la criminologa Michelle Alexander in un libro di una decina di anni fa che gli afroamericani e tutte le minoranze hanno avuto sì i diritti civili, ma attraverso il sistema della giustizia penale questi diritti civili sono stati negati. La nuova segregazione non avviene alla luce del sole, non consiste nella soppressione esplicita di diritti, ma si manifesta al momento dell’incontro fra un poliziotto bianco e un sospetto nero, nel modo in cui sono trattati i reati violenti, nel modo in cui sono puniti i reati droga, eccetera. Il sistema penale americano tende veramente a criminalizzare la povertà e la malattia mentale, versante quest’ultimo sul quale il mondo afroamericano è privo di difese.
Nel corso delle manifestazioni che sono seguite alla morte violenta di George Floyd si è visto di tutto: azioni di repressione eccessiva da parte della polizia contro i chi protestava, manifestanti violenti che saccheggiavano negozi, manifestanti che danneggiavano o abbattevano statue di personaggi vissuti 150 anni fa, poliziotti che si inginocchiavano davanti ai manifestanti. Qual è il sentimento dominante della maggioranza della popolazione davanti a quello che sta succedendo? Con chi solidarizza la maggioranza degli americani?
Non è facile in questo momento individuare un sentimento dominante. Credo che la maggioranza solidarizzi con chi protesta ed esprime un sentimento di rabbia, disgusto e compassione per quello che è accaduto. Però è vero che dentro e attorno a questo movimento di protesta sono successe le cose sintetizzate nella domanda: saccheggi, violenze, statue distrutte o violate. Nelle piazze americane troviamo mescolati coloro che legittimamente chiedono giustizia con elementi di un movimento che è l’espressione della cosiddetta “ideologia del campus”, un ombrello sotto il quale ci sono radicali, anarchici, radicali di estrema sinistra, autonomi, gli “antifa” che sono una federazione ombra fra black bloc e anarchia. Tutte queste forze hanno in comune un tipo ideologico che stato coltivato accuratamente negli ultimi decenni nelle università, soprattutto quelle di élite, che vuole usare questa circostanza per affermare qualcosa che va al di là della lotta al razzismo, che è un rovesciamento del sistema. Vuole portare avanti un’agenda che è quella della politica identitaria: tutto un mondo di rivendicazioni e di risentimenti e di offese percepite e di denunce di sfregi fatti dal sistema oppressore. Tentando di appropriarsi anche in modo indebito di una protesta legittima.
Come può essere definito il movimento Black Lives Matter, che sembra quasi l’egemone delle proteste, dal punto di vista politico? È un movimento antirazzista per l’uguaglianza dei diritti civili, com’era quello di Martin Luther King nei primi anni Sessanta, o è qualcosa di più radicale? Qualcuno lo definisce un’organizzazione marxista, qualcuno lo considera un movimento anti-bianco. Donald Trump l’ha definito “fascismo di sinistra”.
È un movimento composito e senza leader, per cui non è facile districarsi, anche se la sua piattaforma ufficiale indica importanti elementi di radicalismo nella sua ideologia. Io vedo una cesura con l’antirazzismo del passato. Martin Luther King, nel suo famoso discorso davanti al memoriale di Abramo Lincoln, nel 1963, disse che occorreva incassare la cambiale depositata dai padri fondatori, quella dove è detto che sono verità autoevidenti che tutti gli uomini sono creati uguali e hanno diritto alla libertà e alla ricerca della felicità. L’America, pensava King, dopo un lungo percorso infine avrebbe raggiunto quell’ideale, che ancora non si era realizzato nella storia. Lui credeva profondamente nell’ideale americano, tanto che citava Thomas Jefferson, uno dei principali autori della dichiarazione di indipendenza. Invece Black Lives Matter distrugge le statue di Thomas Jefferson perché era un proprietario di schiavi del Sud, ma in quel gesto c’è anche un rifiuto del progetto americano come tale.
Questo è il sentimento dominante nelle piazze che si sovrappone a quello di chi legittimamente chiede uguaglianza di diritti, come al tempo del movimento per i diritti civili. Si ripropone la spaccatura di un tempo fra i due grandi leader afroamericani della seconda metà degli anni Sessanta, Martin Luther King e Malcolm X. Il secondo esprimeva il radicalismo che contestava il progetto stesso dell’America e che si poneva l’obiettivo della sua distruzione, in quanto sistema intimamente strutturalmente ingiusto e oppressivo, e non semplice tradimento di ideali buoni, veri e condivisibili. King, imbevuto di sentimento cristiano, essendo un pastore battista, sosteneva che anche le sofferenze erano parte di un percorso che portava a compimento i grandi ideali americani. Oggi il modello che ha vinto nel mondo afroamericano del 2020 è Malcolm X.
Foto Ansa
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