Usa. Non è al “razzismo” che deve ribellarsi un paese dove la polizia ha ucciso quattrocento, forse mille persone in un anno

Di Mattia Ferraresi
14 Dicembre 2014
Ferguson, Staten Island, Phoenix, Cleveland… In America (come ovunque) la piazza mescola cronaca e slogan alla moda. Sbagliando il bersaglio

Una cosa è chiara: non è per protestare contro l’impunità dei poliziotti che l’America si è riversata con più vigore e rabbia nelle strade alla decisione del gran giurì di non incriminare l’agente Daniel Pantaleo. La protesta è contro l’impunità del poliziotto bianco che uccide neri disarmati per disprezzo e noncuranza, per un coacervo di motivi che sì, sarà anche complesso e stratificato, c’entrerà con la povertà suburbana e la crisi, ma in fondo è riducibile all’odio per il colore della pelle altrui. A Ferguson, nel Missouri, si è riaperta l’antica ferita dello scontro razziale; a Staten Island l’indignazione popolare ha avuto la conferma che cercava: non esistono casi isolati, soltanto episodi di una stessa trama.

michael-brown-fergusonLe circostanze della morte di Michael Brown ed Eric Garner sono molto diverse. Il primo è stato ucciso dall’agente Darren Wilson in mezzo a una strada novanta secondi dopo l’approccio del poliziotto. Intorno a quello che è successo in quei novanta secondi ci sono testimonianze divergenti e prove che danno conferme parziali di una versione e altrettanto parziali smentite dell’altra. Per settimane alcuni interrogati hanno insistito che Wilson aveva sparato alla schiena del diciottenne, e che il ragazzo disarmato aveva le mani alzate in segno di resa. Le mani alzate e il grido disperato «don’t shoot!», non sparare, si sono trasformate nel gesto universale della protesta contro la violenza degli uomini in divisa. L’autopsia e le prove balistiche, però, smentiscono entrambe le circostanze, tanto che molti testimoni hanno modificato i propri racconti alla luce delle prove. Anche nella versione di Wilson ci sono molti punti oscuri, e il fulcro del suo apparato difensivo – le legittima difesa da un’aggressione a suon di pugni che avrebbe potuto metterlo al tappeto – non s’accorda granché con le fotografie che lo ritraggono, dopo l’accaduto, con qualche leggero livido sul volto e sul collo. Non sono le immagini di un uomo malconcio dopo una rissa selvaggia contro un avversario molto più forte.

Insomma, i fatti di Ferguson sono avvolti da vari strati di nebbia, le cinquemila pagine del faldone dell’inchiesta sono fitte di contraddizioni e angoli oscuri, e alcuni punti cruciali della vicenda non possono essere provati attraverso testimonianze indipendenti. Osservando e ponderando tutti questi elementi, la giuria ha ritenuto che Wilson non abbia violato i termini di una legge che – notare bene – tende a dare ampia libertà d’azione ai poliziotti e a difenderli dove non ci sono prove schiaccianti. Nel merito della legge si può discutere, e probabilmente è di questo dibattito che l’America ha bisogno, ma non al gran giurì del Missouri né di New York né di nessun’altra contea americana spetta il compito di legiferare.

arresto-eric-garnerL’uccisione di Garner, fermato dalla polizia di New York perché vendeva sigarette “loose”, singole, lungo la strada, è completamente diverso. Innanzitutto perché una telecamera di sicurezza ha ripreso una scena che è tragica dal punto di vista umano ed enormemente problematica per quanto riguarda la condotta delle forze dell’ordine. L’agente Pantaleo prende il sospetto per il collo, eseguendo una manovra brutale che la polizia di New York ha messo fuori legge nel 1993. La vittima ha ripetuto per otto volte «I can’t breath», non riesco a respirare, ma questo non ha fermato gli agenti. Garner soffriva di asma e ha avuto un infarto durante il trasporto in ambulanza verso l’ospedale, ma il referto medico non lascia dubbi: è morto a causa della pressione sul collo esercitata dal “chokehold” dell’agente. Anche in questo caso il gran giurì ha scagionato il poliziotto.

L’incredulità di G. W. Bush
Un uomo di colore ucciso da un agente bianco, il quale non viene poi incriminato per decisione di una giuria: le similitudini fra Ferguson e Staten Island finiscono qui. Le reazioni della politica confermano le differenze: se il caso del Missouri ha frammentato le opinioni, quello di New York ha suscitato un consenso bipartisan. Anche l’ex presidente George W. Bush, che in questi anni ha ampiamente esercitato l’arte del silenzio sulle vicende politiche e di cronaca, dice che «il verdetto è molto difficile da capire e accettare», ammettendo di fatto l’impossibilità di credere a una sentenza che contraddice quanto il mondo vede con i propri occhi.

Certo, una cosa è provare che la presa al collo ha causato la morte di Garner, un’altra è affermare che gli agenti hanno agito con la chiara intenzione di uccidere, ma rifiutare in termini categorici l’incriminazione è cosa che ha lasciato perplessa e financo indignata anche la destra “law and order”. Ma la piazza tende a mischiare gli elementi fino a farne una purea indistinta. Nonostante la complessa specificità delle circostanze, le differenze nella dinamica, nei soggetti coinvolti, nel contesto sociale ed economico, l’opinione pubblica attribuisce la colpa di tutto quanto all’ombra oscura del razzismo, peccato originale dell’America della schiavitù, della segregazione, delle leggi di Jim Crow, dei linciaggi del sud, delle marce soffocate nel sangue e degli assassinii che nessuna legge sui diritti civili sembra in grado di redimere. Nemmeno eleggere un presidente afroamericano cambia la sostanza del problema, anzi forse lo aggrava, perché dà quell’impressione di uguaglianza razziale che è il paravento per chi il razzismo non lo teorizza ma lo pratica nei fatti. Ad esempio i poliziotti. E specialmente quei poliziotti bianchi che controllano i corpi di polizia nelle aree a vastissima maggioranza afroamericana come Ferguson: potere, discriminazione e violenza vanno a braccetto.

«Black lives matter», anche le vite dei neri valgono qualcosa, grida la folla in centinaia di città americane. Michael Brown era un ragazzo disarmato colpevole soltanto di «essere nero e di camminare», dicono. Il razzismo viene postulato come principio primo dei rapporti sociali, e ogni aspetto della giustizia criminale – i procuratori, i criteri per la selezione delle giurie, il sistema carcerario – viene ridotto a mera sovrastruttura. Anche il sistema economico viene presentato come uno strumento dell’oppressione bianca: impoverire gli afroamericani è il modo migliore per spingerli verso la criminalità. Ci penseranno i giudici a mettere la malizia e il pregiudizio necessari per garantire una pena severa per quelli che arrivano vivi al processo. Questi ragionamenti, infiammati da una generica mentalità a.c.a.b, alimentano la rabbia dei manifestanti.

Un paese in cui nel 2013 la polizia ha commesso 461 “omicidi giustificati” secondo i dati dell’Fbi e oltre mille secondo un gruppo di giornalisti e accademici che si occupa della raccolta dei dati sulla violenza delle forze dell’ordine, con ogni probabilità ha un problema con l’uso della forza da parte della polizia e con l’amministrazione della giustizia. Il confronto con le altre democrazie occidentali e non solo è impietoso: in Inghilterra nello stesso anno il numero di persone uccise dai poliziotti è pari a zero.

Un’inferenza indebita
Si possono e si devono discutere le cause di queste distorsioni, e si possono addurre ordini di motivazioni disparati, dalla diffusione delle armi da fuoco che trasforma ogni controllo in una potenziale sparatoria alla criminalità, fino alla sindrome di onnipotenza dei tutori della legge. Si possono e si devono studiare riforme adeguate alla natura complessa del problema, mettendole nel quadro di una riforma della giustizia urgente nel paese che ha un tasso di incarcerazione che fa sembrare la Russia e l’Iran le patrie del garantismo. Ma non è di questo che sta discutendo l’America. Si discute invece dell’odio razziale e delle sue ramificazioni, muovendo dall’assunto che a Ferguson e Staten Island il potere bianco in divisa e in toga ha mostrato ancora una volta il suo volto xenofobo.

Il bambino afroamericano di dodici anni ucciso a Cleveland perché brandiva una pistola giocattolo senza marchio di sicurezza o Rumain Brisbon, 34enne di Phoenix ucciso davanti alla fidanzata e al figlio di 15 mesi, sono diventati immediatamente parte del canovaccio che associa gli eccessi polizieschi al tema razziale, e immancabilmente il sistema protegge gli assassini. Già meno citato il caso del poliziotto bianco appena incriminato in South Carolina per avere ucciso un afroamericano disarmato.

Non significa che il razzismo in America sia scomparso. Si possono individuare diversi fattori che suggeriscono la presenza di un germe per cui l’organismo americano ancora non ha sviluppato gli anticorpi, ma le grida contro i poliziotti razzisti e i giurati corrivi è figlia di un salto logico, di un’inferenza indebita.

Quella voce fuori dal coro
La protesta scandisce un unico messaggio con martellante regolarità. Sul luogo del delitto impunito si presentano puntualmente quelli che la leggenda del basket Charles Barkley chiama «il solito cast di personaggi tristi», naturalmente capitanato dall’onnipresente reverendo Al Sharpton. L’attacco di Barkley ai difensori dei diritti civili che dal caso di Trayvon Martin in Florida sono risaliti sul carro della protesta ha diviso la comunità afroamericana. Anche perché l’ex campione dei Phoenix Suns si è spinto oltre, difendendo i poliziotti che hanno ucciso Garner, un corpulento criminale che ha opposto resistenza all’arresto.

Barkley fa scandalo perché rifiuta l’applicazione del teorema razziale a prescindere dalle circostanze: «L’idea che i poliziotti bianchi vadano in giro per ammazzare i neri è ridicola, assolutamente ridicola», ha detto; la polizia, invece, è «l’unica cosa che permette ai ghetti afroamericani di non trasformarsi nel selvaggio west». Non nega che esista il razzismo, anzi, ma si rifiuta di buttare con automatica certezza qualunque caso di cronaca coinvolga un bianco e un nero nel calderone degli omicidi a sfondo razziale: «Non penso che ogni volta che succede qualcosa di brutto alla comunità nera dobbiamo tirare fuori la schiavitù», ha spiegato l’ex giocatore, facendo imbestialire la parte più vociante della comunità nera che sta cavalcando tragedie umane aggravate da un impianto della giustizia da rivedere. Con il suo solito fare poco diplomatico ha concluso: «Alcuni nella comunità finiranno per trovarsi d’accordo me, altri finiranno per baciarmi il culo».

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17 commenti

  1. Foc_auld

    Il rapporto senatoriale di 600 pagine sulle torture operate dai servizi USA dall’11 settembre 2001 ad oggi contro stranieri, si pone nel momento in cui i poliziotti americani arrestano per futili motivi, ed uccidono per debolissimi pretesti, cittadini americani, in un clima di Stato di polizia violento ed oppressivo, che ha la popolazione carceraria più grande del mondo.

    Il liberismo assoluto porta ad esiti prossimi al totalitarismo leninista.

    Anche a questo è servito l’auto-attentato dell’11 settembre 2001.

    Dall’11 settembre, la «libera America» è stata mutata in un sistema totalitario di tipo nuovo a cominciare dalla legge speciale anti-terrorismo chiamata «Patriot Act».

    1. yoyo

      Auto attentato solo per Michael Moore. Quanto sia attendibile lo si è visto con le lodi sperticate agli ospedali cubani.

      1. Raider

        Al solito, cambio di staffetta e musica per Piano solo. Si mescolano cose che non c’entrano nulla, ma per fare polemica a senso unico – e si sa quale -, vanno tutte bene, si frulla et voilà!, l’intruglio, la sbobba è pronta in testa-coda in barba a ogni logica e a un discorso serio. La popolazione carceraria è un funzione dell’efficienza della legge, laddove c’è e non si tratta di quella islamica che non considera reato ciò che da noi lo sarebbe; dei tribunali, quando funzionano; e senza amnistie e condoni e abolizione di reati che hanno proprio lo scopo sociale, non di rado, di decongestionare le prigioni.
        Poi, criticare il sistema giudiziario e sociale di un Paese, è ancora consentito, da queste parti:
        che il liberismo sia “prossimo” al traguardo del leninismo può venire in mente a chi non solo non è mai stato liberale – non è un obbligo esserlo -, ma fa ricorso a argomenti per cui non c’è bisogno di muoversi per arrivare a certe conclusioni complottiste;
        e anche a stare dietro ai complotti per non voler vedere ciò che è di tutta evidenza.
        Che il Paese da attaccare
        – in parole, pensieri e opere e manu militari, come i complottisti desiderano pregando e seminando a piene mani sulla tastiera la zizzania: e poi, quando a qualcuno di loro il colpo riesce, ne danno il merito al Paese da attaccare –
        sia sempre e solo uno o per non lasciarlo solo soletto, sia una “triade” e non altri – la scelta sarebbe piuttosto ampia -, mostra come le polemiche strumentali rivelino la limitatezza faziosa e mistificatoria di una paranoia persistente – vedi le paranoie sull’11 settembre, un evergreen dei coristi del complotto -:
        per cui, se solo si obietta in merito, si passa per filo- qualcosa come si vorrebbe fare passare per anti-un’altra, benché a salire sul pulpito siano quelli che si sono arrampicati a gridare dall’altoPiano per lanciare proclami al jihad contro USraele.

        N.B. Spero che Cisco avrà modo, tempo e voglia di rispondermi.

      2. Leo

        Può dirmi che cosa e perchè non la convince delle contestazioni più importanti alla versione ufficiale dei fatti dell’11 settembre 2001 ?

        1. yoyo

          Secondo te per quale ragione un capo di stato democraticamente eletto dovrebbe sterminare 3000 suoi elettori? Capisci che a non stare in piedi sono i vostri deliri?

          1. I Leo

            @Yoyo :

            Le rifaccio gentilmente la domanda alla quale non ha risposto :

            Che cosa e perchè non la convince delle contestazioni più importanti alla versione ufficiale dei fatti dell’11 settembre 2001 ?

            Sto parlando delle contestazioni basate su evidenze oggettive. testimonianze, dati tecnici e scientifici, fatti raccolti in 13 anni dal 9/11 Truth Movement. Insomma di tutti gli elementi raccolti di cui lei è certamente a conoscenza e di cui ha fatto una minuziosa disamina pervenendo alla conclusione che sono deliri.

          2. Raider

            Yoyo, le conclusioni cui sono giunte commissioni e sottocommissioni e anti-commissioni sono pane quotidiano per chi si nutre di complotti, ma, poi, limita la dieta al piatto unico di deliri a un Piano. Copincollare risultanze di inchieste incrociate e contrappooste e a fare di questo blog il collettore delle cloache complottarde a reti fognarie unificate sarebbe un’impresa grandiosamente inutile; ma, in effetti, darebbe l’esatta misura della renitenza al principio di realtà di gente che ha fatto della univoca devozione al salto dal Piano al guano il paranoico principio di piacere di andare appresso alla logica dietrologica senza fine cui si è votato.
            Basterebbe dire che, per questi bongustai della cavolata farcita di mistificazioni, i jihadisti sono finanziati dall’Occidente: ma che si tratta, comunque, di eroici combattenti anti-imperialisti. Però, chissà perché, è solo l’Islam a fornire in gran copia gente di così alto tenore bellico; sta di fatto che questi eroici mercenari degli interessi altrui nel nome dell’Islam sono, in tal modo, riscattati dalle loro farneticazioni in proprio e in piccolo per essere promossi con tutti gli onori, in nome di deliri più grandi, a combattenti di una causa umanitaria dagli stessi complottisti che, ogni tanto, a convenienza o a richiesta, li aborrono.

  2. Raider

    L’integrazione razziale sembra sia un problema anche a Cuba e nei tristi Tropici, ritenere che sia il problema di un solo Paese sulla base di una lettura della storia a senso unico giova solo a distorcere i fatti e a strumentalizzare per altri fini un problema che è anche delle società europee, dove si intreccia a fattori demografici, politici e economici dirompenti e di cui non c’è sufficente consapevolezza. vedi le politiche migratorie contraddittorie, confusionarie, ipocrite, rinunciatarie della in via d’estinzione cara Ue.
    Il tema, del resto, si presta a strumentalizzazioni senza fine – qualche saggio è già su questa pagina – e a una retorica rispetto a cui ogni dissenso viene bloccato con la parola che mette fine a ogni critica fin dall’inizio: “razzismo.” Naturalmente, come per omofobia, non è mai chiarito cosa vada inteso col termine razzismo: così, il solo ritenere che si possa dire “no”, che non si debba dire sempre e solo “sì” a un’immigrazione che, diversamente, non ha alcun senso cercare di regolamentare o controllare – e tutto, infatti, dimostra che è proprio così -, è considerato razzismo. E l’anatema che si abbatte sui temerari che osino dire ciò che pensano solleva tutti dall’onere di un dibattito libero. E si ha, perciò, tutto l’agio per esortare a colpo sicuro o alludere ammiccando – proprio come gli imam fondamentalisti del mondo musulmano – al jihad contro “triade diabolica” e contro il protestantesimo, storicamente responsabile di quello che si condanna unanimi; mentre sulle responsabilità e continuità storiche fra jihadismo e islamismo, invece, è tutto a posto, tutto bene, tutto in regola, grazie. Sempre in nome delal coerenza, della correttezza politica, della coscienza sporca che, cristianemente, incita ogni quando e come sempre alla guerra santa contro Usraele.

    1. Cisco

      @ Raider
      Certamente il problema del razzismo non riguarda solo gli USA, anche perché sono stati gli europei a colonizzarli, ma l’articolo parla di loro. Il problema razzismo non dipende da quello dell’immigrazione, ma da quello della colonizzazione: gli schiavi neri sono stati portati a forza negli USA, e sono stati considerati esseri inferiori, con un giudizio teologico di stampo calvinista, dagli stessi padri fondatori. E’ noto, per esempio, che Lincoln possedeva degli schiavi, che non erano degli immigrati in cerca di fortuna, come furono molti italiani.

      1. Raider

        Presumo le sarà sfuggito, Cisco, ma nei commenti in coda all’articolo a proposito della diffusione del protestantesimo le ponevo alcune domande in ordine al giudizio così allarmato da lei espresso sulla diffusione delle chiese finanziate o meno da governo e lobby nord-americane: la rimando a quelle chiedendole di rispondermi, se può o se le va, perché ho fiducia che lei saprà farlo in modo civile, senza scantonare, senza copincollare, senza vaneggiare come fanno altri, felici di dirottare nella direzione desiderata sintonie pressoché obbligate; e non mi accuserà, siccome dissento da interpretazioni correnti e a senso unico, di essere protestante né filo-protestante, come è d’uso fare ai paranoici che seminano zizzania qui, per i quali, se ne contesti le trame complottiste, sei inserito d’ufficio nel registro dei nemici di Dio e dell’umanità: e così, esprimendosi come gli imam che gli piacciono e come i fondamentalisti protestanti che gli dispiacciono, i paranoici non si rendono conto di proiettare sugli altri l’immagine di sé o di avere interiorizzato ben bene il male che pretendono di castigare negli altri.
        Mi sembra che il merito dell’articolo sia rimasto sullo sfondo ancor prima che io intervenissi; da parte mia, ho ritenuto di andare oltre le condanne facili e sulle quali è facile concordare senza nessun rischio per l’incolumità della propria autostima e senza scatto di indignazione alla risposta sgradita. Credo che lei abbia frainteso, Cisco, il senso del mio intervento, che verteva non sulla genesi del razzismo negli U.S.A., su cui si potrebbe discutere senza, tuttavia, trarre conclusioni implicite nelle premesse anti- una cosa o l’altra; e infatti, chiedevo se lo stesso criterio sull’origine più o meno remota di distorsioni e aberrazioni e però, anche di certe rivendicazioni identitarie in casa d’altri in nome del multiculturalismo, non potessero valere anche per gli islamici, che sono molto gelosi delle loro radici e non sono per nulla disposti all’autocritica, al libero esercizio della critica e al pluralismo di un dibattito aperto, franco, senza ipocrisie né sull’ieri né sull’oggi, piuttosto che crogliolarsi sul “dialogo” come valore in sé purché non sia messo in discussione un bel nulla.
        D’altra parte, si figuri se non so bene la differenza fra deportazione e immigrazione: non so come le sia potuto venire in mente che non sia chiara a me una cosa del genere. Che andrebbe fatta notare a chi pensa solo a emendare il linguaggio per censurare le opinioni, in attesa di trasformarle in un reato da galera. L’Ue ritiene che l’immigrazione di massa, incontrollata e illimitata, vada accolta senza riguardi per la sovranità territoriale: e guai a chiamare invasione ciò che tecnicamente lo è – infatti, sui manuali scolastici in adozione nelle nostre scuole le invasioni barbariche sono diventate “migrazioni armate”: così, le invasioni pacifiche vanno subite senza fiatare. Quando, però, si devono riaccompagnare alla frontiera o nei Paesi d’origine i clandestini espulsi, si deve aver cura di farlo pochi individui alla volta: altrimenti, l’Ue dice che si tratta di “deportazione.” Non so se ha presente: la deportazione riguarda gli autoctoni che risedono da secoli in un territorio su cui rivendicano la sovranità: invece, l’eurocratese chiama deportazione l’eventuale esplusione di stranieri clandestini irregolari nelle stesse proprozioni con cui essi sono entrati in un Paese Ue. E non le dico in altri divieti lessicali che ci vorrebbero imporre in nome di “omofobia”, “discriminazione di genere”, “islamofobia”, “razzismo”: tutte riconducibili alla stessa fattispecie della violazione dei sacri dogmi della religione del Pensiero Unico.
        Mi sono dilunguato come non avrei voluto e non ci crederà, senza nemmeno finire – avendo appena iniziatro, semmai. Mi fermo qui. Spero che lei legga questo come l’intervento di cui sopra: e se lo ritiene, prego, dica pure. Non ho mai rifiutato un confronto di opinioni libero da autocensure e censure e dalle une alle altre, passandoci in mezzo o saltandole a piè pari, da paranoie e mistificazioni riccamente assortite.

  3. Leo

    Il cattivismo applicato senza limiti in Iraq ed Afghanistan, in Siria e in Libia, contro l’Argentina e la Russia, deborda, tracima all’interno degli stessi USA.

    Niente più diritti civili, né diritti umani.

    L’1% di Wall Street, che ha costruito l’immane idrovora che porta in alto il plusvalore del 99% in basso, vuole di più; ha eliminato la classe media americana, non vuole che lustra scarpe, friggitori di hamburgers e venditori di sigarette sciolte.

    Le classi inferiori cessano di essere un problema sociale, sono un problema di ordine pubblico: i poliziotti hanno capito benissimo come regolarsi.

    1. yoyo

      Il vostro buonismo ci comcegnerebbe al califfato. Gli americani hanno certo il grilletto facile, ma hanno molto più stato di diritto del Iraq.

      1. Leo

        “hanno molto più stato di diritto del Iraq”

        Da brava superpotenza coloniale fino a qualche tempo fa concedeva ai suoi sudditi qualche regalino in più rispetto ai popoli colonizzati e ridotti, come l’Iraq, all’età della pietra tramite bombe umanitarie e attualmente tramite gli amici islamisti di Mc Cain.
        Ma le cose anche sul proprio territorio sono cambiate e la divisione in caste sta prendendo e prenderà sempre più piede.

        1. yoyo

          Preferisci isis? Fossero andati via con più calma, ora non saremmo in questa situazione. Una statua a Petraeus.

          1. GLeo

            @Yoyo :

            Non si preoccupi, i nostri “Alleati.e.non.nemici” non sono mai veramente andati via dall’Iraq ! Non sono io a preferire l’Isis, ma il senatore Mc Cain che si fa fotografare con i simpatici (per lui) tagliagole. Magari proponga una statua anche per lui, così Petraeus ha la scusa per continuare i “legittimi-dolorosi-ma-necessari” interrogatori per estorcere spontanee confessioni a dei poveri cristi.

          2. yoyo

            Mostramela, allora. Altrimenti farnetichi.

  4. Cisco

    Il riflesso nell’attribuire automaticamente – e quindi erroneamente – al razzismo la spiegazione di un fatto criminoso deriva dal fatto che il razzismo esiste veramente. Lo denotano tutte le statistiche, da quelle riguardanti i detenuti a quelle riguardanti la percenduale di neri nelle forze dell’ordine, di gran lunga inferiore rispetto alla parcentuale dei neri nella società. Quindi il problema è di integrazione e riscatto sociale, nella realtà non esistono capi di polizia neri come nei telefilm stile N.C.I.S. Condannare la strumetalizzazione va bene, ma fermarsi a questo o alla critica del sistema giudiziario USA significa avere le fette di prosciutto sugli occhi, anche perchè tale sistema giudiziario è stato appunto istituito da gente che possedeva degli schiavi neri.

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