Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) e fa parte della serie “Idee per respirare”
«La profezia l’aveva enunciata il caustico editorialista Samuel Francis nel 1996, in tempi di sicurezze economiche e affermazione, all’apparenza incontrovertibile, del verbo democratico: “Con le élite che tentano di trascinare il paese nei conflitti e negli impegni globali, guidano la pastorale economica degli Stati Uniti, lavorano alla delegittimazione della nostra stessa cultura e all’esproprio dei beni della nostra gente, disprezzano i nostri interessi nazionali e la nostra sovranità, una reazione nazionalista è quasi inevitabile, e assumerà probabilmente una forma populista quando arriverà. E prima arriva, meglio è”. Aveva previsto tutto, Francis, tranne il ciuffo». (M. Ferraresi, La febbre di Trump. Un fenomeno americano, Marsilio, 160 pagine, 12 euro)
Dunque non è vero che l’ascesa politica di Trump è una sbavatura folle nella parabola perfetta della democrazia più invidiata del mondo. La sua discesa in campo capace di far fuori a cannonate tutti i rivali nella corsa alla nomination repubblicana per la Casa Bianca, per quanto sia «imprevista e sclerotica, inquietante e dadaista» e per certi versi sì, «inedita», tuttavia è composta di «elementi già editi nella cultura americana». Meglio: «Con buona pace dei critici, Trump è in realtà un prodotto naturale, non l’eccezione degenerata, di una tradizione americana perimetrabile, una forma mentale riconoscibile, a patto che si abbia la pazienza di fare le radiografie giuste».
Non è certo il classico romanzetto da spiaggia, il saggio di Mattia Ferraresi, corrispondente del Foglio da New York e firma di Tempi, ma le radiografie giuste del fenomeno Trump le espone tutte con la necessaria retroilluminazione. Perciò vale la pena di infilarlo in valigia quest’estate: leggerlo potrebbe tornare utile per prepararsi all’autunno che verrà (del resto anche la Brexit pareva impossibile fino al giorno prima). La febbre di Trump esce in libreria il 14 luglio, a quattro giorni dalla convention di Cleveland dove “The Donald” sarà proclamato ufficialmente candidato presidente del Partito repubblicano. E per tentare di comprendere e rendere comprensibile questa furiosa americanata, Ferraresi ha scavato con perizia, dissotterrandone le radici personali, sociali, culturali e politiche, dipanandole per noi profani in modo chiaro e godibile.
Come dimostra l’intuizione-invocazione di Francis riportata sopra, i semi del trumpismo germinavano da tempo nella terra delle opportunità. Anche il sommo politologo Samuel Huntington, si legge nel libro, sfiorò la profezia quando nel 2004 descrisse per il National Interest il crescente «scollamento fra le idee dell’élite e la concezione identitaria insita nel popolo». Il padre della celebre teoria dello scontro di civiltà vedeva chiaramente il problema dell’abisso venutosi a creare tra una classe dirigente ormai tutta intenta a «inseguire un ideale cosmopolita, transnazionale, universalista, perfettamente esportabile in ogni angolo del globo, una forma di pensiero che tende a mettere il prefisso “multi” davanti a qualunque aggettivo», e un popolo invece ancora aggrappato (più con le viscere che con la testa) a «quel coacervo identitario» di matrice anglosassone e protestante «che Huntington definisce il “credo americano”». È questa la frattura nel cuore dell’America da cui è saltato fuori Trump. Una voragine «non fra isolazionisti e internazionalisti» ma «fra nazionalisti e cosmopoliti». «Mentre le élite si denazionalizzano», sintetizzava Huntington, «gli americani rimangono gli uomini più patriottici del mondo».
Dal Klondike a Manhattan
«I muri, i dazi sulle merci, il potere militare enorme ma usato in funzione deterrente e difensiva, la ridefinizione della “obsoleta” Nato, la pressione sugli alleati-parassiti perché smettano di pesare su Washington non sono che conseguenze politiche di una postura nazionalista». In due parole: America First. Dal punto di vista elettorale Trump parla a un paese che chiede protezione, a «un’America ferita» da una crisi che non è finita e forse non finirà mai nonostante la ripresa del Pil, spiega Ferraresi. «Ad ascoltare le contraddittorie promesse di Donald c’è il paese immobile raccontato da Robert Putnam in Our Kids, dove per la prima volta è stato violato un comandamento del sogno americano: che i figli avranno più fortuna e ricchezza dei padri». Ecco perché La febbre di Trump è “un fenomeno americano”. Ed ecco perché vale la pena di portarsi in spiaggia il libro di Ferraresi.
Paleoconservatore. Nixoniano. Adepto del “Vangelo della prosperità” non esente da venature di razzismo e di anticattolicesimo. Ferraresi fa emergere il ritratto di Trump raccontando movimenti e visioni della politica e della cultura americane che di solito non superano il filtro dell’informazione italiana, ma senza i quali il caso Trump non può che apparire come un’oscura meteora. Naturalmente poi l’autore sa bene che non tutto in politica si spiega con le categorie della politica (noi italiani berluscones questo lo abbiamo imparato bene), e a maggior ragione in un libro su Trump non può mancare una moltitudine di aneddoti che restituiscono plasticamente l’irripetibilità di un personaggio che se ne infischia delle contraddizioni, anzi le usa come armi contro gli avversari.
Lo zimbello del bel mondo
C’è una scena nel libro che rende bene che cosa rappresenta, a livello personale, la partita politica per Trump. Siamo nel 2011, alla cena dei corrispondenti della Casa Bianca, appuntamento annuale tradizionale in cui «il presidente si avventura nel registro umoristico e i giornalisti sono invitati a ridere e applaudire». In sala c’è Trump «con lo smoking d’ordinanza e i capelli più vaporosi del solito». Con le sue teorie cospirative sulle “vere” origini di Obama, è «un bersaglio fin troppo facile». Viene demolito a suon di battute e ne esce a pezzi.
Il problema è che The Donald si è sempre rifiutato di pensare a sé come il palazzinaro dei grattacieli e dei casinò a tema divenuto una celebrità da reality, «un pezzo d’establishment locale tagliato fuori dai ragionamenti dell’élite globale». Trump vuole essere preso sul serio anche quando fa il circo Barnum. Anche quando licenzia apprendisti per gioco in tv o «costruisce palazzi e ci mette dentro lo show business», come dice lui. Così quella serata devastante diventa «un momento di verità». «E non è un caso – commenta Ferraresi – che, qualche giorno prima del voto alle primarie del New Hampshire, dove ha iniziato a mettere i mattoni per costruire la nomination repubblicana, Trump abbia detto: “Molti hanno riso di me nel corso degli anni. Ora non ridono più”».
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