“Mamma, perché mi hai abbandonato?”. Chiedetelo a chi straparla di surrogata

Di Caterina Giojelli
20 Novembre 2021
Ma quale dono e amore, «per un figlio è peggio sapere di essere stato regalato che venduto», «l'adozione sana una ferita, l'utero in affitto la procura». Marina Terragni risponde alle fanatiche del mercato dei figli (e alle lagne di chi si sente giudicato)
«L'adozione sana una ferita, la surrogata ne procura una», spiega Marina Terragni

«La surrogata solidale? Una volta un padre adottivo mi ha detto: “Per un bambino è peggio sapere di essere stato regalato piuttosto che di essere stato ceduto per soldi”. Non ci avevo mai pensato. Se sa che la sua mamma era povera e disperata, il bambino riesce in qualche modo a darsi una dolorosa spiegazione: sono stato abbandonato, venduto, perché mia madre aveva bisogno di denaro. Ma quale spiegazione può darsi un bambino se sua madre si è liberata di lui gratis, valevo talmente nulla per lei tanto da regalarmi ad altri? Negli anni queste domande saltano fuori. Chiunque fa adozione sa benissimo che durante l’adolescenza o nella prima giovinezza queste bombe esplodono. Vogliamo fingere che non accada ai figli dell’utero in affitto?».

Giornalista, scrittrice, femminista contro la maternità surrogata, Marina Terragni risponde alla retorica (ma chiamiamola pure tortura del buonsenso) sciorinata da molte commentatrici sul caso della “bambina dal nome di fata” commissionata a una surrogata e abbandonata in Ucraina da una coppia di committenti italiani. Da Michela Marzano a Chiara Lalli, da Filomena Gallo a Maria Sole Giardini, sui giornali è tutto un “giù le mani dalla gestazione per altri”, “nessuno sputi sentenze”, “nessuno giudichi”, “non conta la tecnica ma l’amore”, “legalizziamo la surrogata solidale e scompariranno gli illeciti” eccetera. Eccezion fatta per l’astruso ragionamento di Lalli sui diritti dei bambini violati anche con la maternità naturale – «tutti i figli nascono senza essere interpellati (…), il loro eventuale diritto di non nascere è già irrimediabilmente violato» – non manca nulla a difesa dell’utero in affitto o per affetto; neanche il paragone con l’adozione per farci digerire la genitorialità “non biologica”, «ma alla verità non servono locuzioni inutili: nel caso dell’adozione sani una ferita, nel caso dell’utero in affitto ne procuri una, la separazione del bambino dalla madre».

«L’adozione sana una ferita, la surrogata ne procura una»

Qualunque genitore adottivo può testimoniare la problematicità del confronto con le origini, ribadisce Terragni: anche il figlio più amato a un certo punto chiederà chi è la propria madre naturale e perché l’ha abbandonato. «Ma un conto è ritrovarsi in questa situazione per fatalità o per disgrazia, un altro è procurare questa ferita consapevolmente e per contratto. E non fingano di non saperlo, gli alfieri del “non conta come si nasce”: nessun bambino digerisce la storiella della “mamma pancia” che lo mette al mondo conto terzi, o peggio, la bugia che come in natura nascono i bambini con i capelli rossi e gli occhi azzurri, così nascono bambini senza mamma».

Per carità, «io sono certa che questi bambini saranno amati, amatissimi, so bene che tanti genitori vanteranno di mantenere un legame con la “mamma pancia”, ma il problema non è quel legame, o quello che costruiranno con questi bambini, il problema è la rottura del legame del figlio con la madre. È lui, il bambino, a decidere appena venuto alla luce che quei segnali, quell’odore, quella temperatura, quella voce, quell’intimità vissuta nove mesi nel suo grembo, fanno di quella donna da cui si è “diviso”, quel tutt’uno da cui si è distinto, la sua mamma. Il problema della maternità genetica, e in seguito della genitorialità, di chi lo ama, accudisce, si porrà in un secondo tempo: ma alla nascita è il bambino a decidere che quella è la sua mamma. E noi, con la surrogata, gli diciamo che non è così. Gli diciamo una bugia».

«Dire “Gestazione per altri” è marketing»

Quanto conta allora l’amore “che si è disposti a dare”? Terragni torna spesso all’esempio della madre del giudizio di re Salomone, la donna che amava il suo bambino e pur di tenerlo vivo era disposta al sacrificio più grande: privarsene. «Con la surrogata si inverte la logica: pur di averlo e pur di amarlo lo strappi a sua madre. Ma non può funzionare così. Come fai a dire che ami un bambino se gli porti via la sua mamma? Come lo amerai, se il tuo primo atto d’amore consiste nell’infliggergli una ferita con la quale dovrà fare i conti per tutta la vita?».

Possiamo, come invoca Marzano, non chiamarlo “utero in affitto”, “maternità surrogata”, possiamo chiamarlo come vogliamo, «ma quando si compra o cede un essere umano stiamo parlando di mercato. Non se ne esce con le trappole semantiche. Difendendo la “gestazione per altri” Marzano difende sentimentalmente una biografia personale, e questo si può comprendere – il riferimento è al post di felicità della filosofa di Repubblica e della Stampa sulla nascita del nipotino da “due papà meravigliosi”, non un inciso sulla pratica, vietata dalla legge, della surrogata –, ma quello di Marzano non è altro che il tentativo di allontanare l’idea del mercato ricorrendo al linguaggio del marketing. Lo stesso utilizzato nelle agenzie per la surrogata in cui si parla solo di dono, amore, eccetera».

Quella bambina partorita da un’altra

Tempi vi ha già raccontato come scintilla lo squallido mercato dei figli della surrogata, un ricco eldorado di gallery al miele e articoli sul gesto d’amore e la “gestazione per altri” che lastricano la via dell’inferno della surrogata, commerciale o solidale che sia, dal Canada all’Ucraina. Lo stesso linguaggio del marketing in cui si saranno imbattuti i genitori intenzionali della bambina abbandonata in Ucraina. È vero, si sa ancora poco della vicenda e tuttavia quel che si sa, e non è stato smentito dagli avvocati, è abbastanza per interrogarci sulle ragioni che hanno portato una coppia a lasciare per 15 mesi una piccola, quasi certamente nata da ovocita donato e dal seme del “padre intenzionale”, a 2.100 chilometri di distanza, dopo aver profumatamente pagato tutti gli attori della filiera dell’utero in affitto per metterla al mondo e una tata per occuparsene. Quale pasticcio è accaduto, cosa si è inceppato nel piano?

La bambina commissionata a una surrogata in Ucraina e abbandonata dai genitori-committenti italiani
La bambina commissionata a una surrogata in Ucraina e abbandonata dai genitori-committenti italiani (foto Ansa)

«Non viviamo su una mela, rimbambiti dalla retorica dell’amore, chiunque di noi può immaginare che quando in una coppia interviene una terza figura, un donatore di gameti, le cose possono andare bene o male: abbiamo una vita psichica, interiore, abbiamo degli archetipi di riferimento. Per questo la Corte Costituzionale ha lanciato un affondo esplicito contro l’utero in affitto: “Offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Questa sentenza l’ha scritta Giuliano Amato, non l’ha scritta un nazista. Ammesso che le cose siano andate come scritto nei giorni scorsi dai giornali, il caso della bambina ucraina dimostra perfettamente questa violazione. Possiamo immaginare che non sia scattato l’attaccamento della madre “intenzionale”, una donna totalmente estranea dal punto di vista genetico ed epigenetico, nei confronti della piccola che si è trovata davanti, partorita da un’altra donna».

Se c’è mercato «mollare i figli è più facile»

Succede anche nelle maternità naturali, dicono i paladini della surrogata, «ma con la surrogata il legame col bambino è complicato da altri fattori, in primis la relazione invidiosa nei confronti della donna-fantasma che ha portato per nove mesi in grembo la creatura che chiami “mia figlia”. E poi c’è il fallimento: di fronte a quella figlia sei di fronte al fatto di non essere stata capace di metterla al mondo. L’abbandono capita anche nella maternità naturale, sì, ma quando si entra nella logica del mercato i bambini diventano degli ibridi, una chimera tra umano e merce che non ti corrisponde. E mollarli è più facile».

L’abbiamo già scritto, i bambini non sono cose, nemmeno se ce li scambiamo gratis. Non sono merce, nemmeno se valgono i costi della surrogata. Non sono beni disponibili, nemmeno per amore, perché non sono schiavi. Eppure c’è chi usando l’arma – come abbiamo visto a doppio taglio – del dono, invoca la legalizzazione della gestazione per altri solidale, per evitare casi analoghi a quello della “bambina dal nome di fata”, uscendo così dal medioevo italiano e dalla provincia vaticana per allinearsi ai paesi più moderni e amici dei diritti: «Il paragone da fare purtroppo è con la prostituzione: dove legalizzi, dove regolamenti, si crea il mercato nero, si sdogana una concezione dell’umano ridotto a cosa, merce, da comprare, ordinare, un diritto di cui godere. Non c’è niente di altruistico nella surrogata legalizzata in Canada né in quella ammessa in Inghilterra e niente di medioevale nel vietarlo: anzi, l’utero solidale e la retorica del dono va fortissimo tra le cattoliche americane».

«Vietare non significa non rispettare»

Quanto a sempre invocati paesi avanzati, la surrogata è vietata praticamente ovunque, «solo 20 stati su oltre 200 l’hanno legalizzata. In tutti gli altri è un reato duramente sanzionato. Vietare non significa non rispettare il dolore e il desiderio di chi non riesce ad avere bambini. Non significa non volere bene o augurare il bene ai figli procurati con l’utero in affitto. Questi genitori devono smettere di pensare che la gente li odia, che ci sia una parte di paese che odia chi non può avere i figli o odia i bambini della surrogata. Non è questione di odiare ma di giudicare: perché la gente non può giudicare chi commette reati vietati dalla legge, vietati dappertutto? Non esiste una norma che prescrive l’amore, dove si paga per comprare un essere umano non esistono tutele».

Ce lo ha dimostrato, non da ultimo, il caso della “bambina dal nome di fata: la piccola biondina accolta da una famiglia affidataria in Piemonte non è che «la punta dell’iceberg di una montagna inabissata, fatta di relazioni minate nel profondo, dolore, domande che esplodono come bombe». Sabato 27 novembre, a Milano, alle 14.30, Terragni sarà in piazza San Babila al presidio organizzato dalla Rete per l’Inviolabilità del Corpo Femminile contro l’identità di genere, la prostituzione, la pornografia, la somministrazione dei ormoni bloccati della pubertà a bambini e bambini. E contro l’utero in affitto, il mercato criminale e scintillante delle “bambine dai nomi di fata” che si spinge verso Milano.

Milano dica no al mercato dei bambini

Tutti ricordiamo Beppe Sala inneggiare al Ddl Zan sul palco dal quale Maddalena Grassadonia, responsabile Diritti e libertà di Sinistra italiana, già presidente di Famiglie arcobaleno, proclamava: «Cominciamo col disegno di legge Zan e continuiamo verso la legge 40 (…) Pma, Gpa». Abbiamo registrato l’orrore e il raccapriccio con cui a destra e a manca si è reagito alla notizia dell’arrivo a Milano del salone “Un sogno chiamato bebè” (versione italiana al miele di Desir d’Enfant che ha proposto ai parigini pacchetti “bambino in mano” per tutti i gusti e le tasche). Abbiamo letto la sentenza del Tribunale del 26 ottobre scorso che impone a Palazzo Marino la trascrizione all’anagrafe di un minore nato all’estero con utero in affitto come figlio di due papà in quanto «soggetto “incolpevole” rispetto alle scelte operate da coloro che hanno contribuito alla nascita». Davvero Milano vuole contribuire a realizzare “i sogni” degli adulti al prezzo di un bambino?

Foto di Sergiu Vălenaș su Unsplash  

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