La bimba dal nome di fata e il mercato scintillante e criminale dei figli della surrogata

Di Caterina Giojelli
13 Novembre 2021
Le lacrime di coccodrillo dei media per la piccola ucraina nata da utero in affitto e abbandonata dai genitori-committenti italiani. E quelle gallery al miele sulla compravendita dei bambini?
La bambina commissionata a una surrogata in Ucraina e abbandonata dai genitori-committenti italiani
La bambina commissionata a una surrogata in Ucraina e abbandonata dai genitori-committenti italiani (foto Ansa)
La bambina commissionata a una surrogata in Ucraina e abbandonata dai genitori-committenti italiani
La bambina commissionata a una surrogata in Ucraina e abbandonata dai genitori-committenti italiani (foto Ansa)

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La “bambina ucraina dal nome di fata” oggi è atterrata in Italia, ma come scintillava solo un anno fa lo squallido mercato dei figli della surrogata: era l’estate del 2020 quando si celebrava a Kiev la cerimonia di consegna dei bambini, come coppe, medaglie, onorificenze al merito. Ricordate il sequel dell’orrendo video diffuso a maggio dalla Biotexcom? I 46 neonati partoriti su commissione (“lievitati” in pochi giorni a 125), esposti in cullette trasparenti che risplendevano alla luce dei lampadari della sala da ricevimento dell’hotel Venezia, avrebbero incontrato i genitori-committenti provenienti da Argentina e Spagna che non erano riusciti a “ritirare la merce” durante il lockdown.

Bimbi comprati, baci, selfie

Merce, sì, ed è anche vergognoso dove virgolettare il termine, ma di questo si trattava: neonati chiamati con nomi esotici, abbracciati e baciati tra gli scatti dei fotografi invitati alla cerimonia mediatica. Poco importa come fossero venuti al mondo, l’importante era sottolineare con la forza di nuove immagini la tenacia dei genitori-intenzionali che, con l’aiuto di un magnate e dopo le dovute quarantene, compivano il lieto fine a Kiev. A metà giugno, 31 coppie avevano già ritirato il loro bambino, altre 88 erano attese da Cina, Stati Uniti, Argentina, Italia, Spagna, Gran Bretagna, Francia, Germania, Bulgaria, Romania, Austria, Messico e Portogallo in Ucraina. Attese in un paese in cui il coronavirus aveva inceppato un meccanismo collaudato: statistiche ufficiali non esistono ma gli esperti assicurano che fino a tremila genitori stranieri lasciano ogni anno l’Ucraina con un figlio nuovo di zecca in braccio. Un mercato dei bambini che come tutte le forme di business e commercio ha i suoi problemi di regole, abusi, corruzione.

Ed ecco, dilagare sul web e in tv le immagini: il tenore che cantava l’inno argentino e spagnolo, le coppie in piedi con la mano sul cuore, le telecamere, i flash, i palloncini. Poi, una ad una, le infermiere avevano sfilato con i bebè commissionati in braccio tra gli applausi, consegnandoli ai rispettivi genitori-committenti. I piccoli, immobili, gli occhi ancora chiusi, lasciati nelle braccia di perfetti sconosciuti in mascherina, venivano infilati nei selfie, mentre gli adulti coi loro preziosi fagotti in mano, qualcuno accanto a figli più grandicelli, rispondevano alle domande dei giornalisti.

La surrogata, cancro e traffico di esseri umani

Non comparivano, nei video, le mura e il filo spinato avvolto all’esterno del lussuoso hotel, una patinata cassaforte di bambini in un paese dove le donne più povere, specie delle aree rurali, fanno la fila per portare avanti una gravidanza per altri e intascarsi in nove mesi circa tre anni di stipendio: undicimila euro circa per un pacchetto di maternità surrogata che non costa meno di 27 mila. Qui un ottimo servizio del Guardian ricostruiva la drammatica storia di sfruttamento e miseria delle donne che in fretta avevano capito che il sogno dorato dell’utero in affitto sarebbe diventato un incubo per chi ci avrebbe creduto: «Proteggono solo i figli dei committenti, di noi a loro non importa nulla», cercava di spiegare alle altre ragazze la surrogata Tetiana Shulzhynska. Una donna che nel 2013 aveva un disperato bisogno di soldi per sé, per i suoi due bambini e per ripianare i debiti con la banca: la Biotexcom le aveva dovuto pagare perfino il biglietto per Kiev. Qui si era messa “al lavoro” come portatrice di una coppia italiana scontrandosi immediatamente con quello che le telecamere non dicono e non diranno mai: in seguito ai trasferimenti, quattro embrioni avevano iniziato a vivere nel ventre di Tetiana. La coppia però uno ne aveva ordinato e uno ne avrebbe portato a casa: la clinica asportò chirurgicamente gli embrioni in eccesso. Nel maggio del 2014 Tetiana diede quindi alla luce una bambina in cambio di novemila euro. Sette mesi dopo tornò in ospedale con fortissimi dolori addominali: cancro alla cervice uterina fu la diagnosi. La donna ci mise un anno per poter raccogliere fondi per affrontare un intervento chirurgico e salvarsi la vita. Troppo tardi, il cancro era già diffuso: i medici, spiegò al Guardian, dovevano amputarle una gamba.

Secondo la donna, che nel 2015 ha denunciato per danni alla salute la Biotexcom, cancro e trattamenti per la surrogazione sono collegati. Non ha prove, ma non è l’unica ad essersi rivolta alla giustizia facendo partire indagini contro la clinica: altre tre madri surrogate hanno subito isterectomie appena dopo il parto. E non sono le uniche indagini aperte: nel 2016 la Biotexcom venne accusata di traffico di esseri umani. Fu una coppia italiana a rivolgersi al tribunale scoprendo che i bambini portati a casa dall’Ucraina non erano geneticamente imparentati con loro. Non fu l’unico scandalo, ci sono almeno altri tre casi in cui i genitori intenzionali hanno ripudiato i bambini commissionati in Ucraina perché avevano problemi di salute. Qui vi avevamo raccontato la storia di Bridget, “figlia” di una coppia di americani, nata nel 2016, che finì in un orfanotrofio a Zaporizia.

Bridget e la fata abbandonate dai committenti

E ora c’è lei, la bambina col nome di fata, un’altra bambina figlia della surrogata e abbandonata in Ucraina. Abbiamo visto video e immagini del Scip, Servizio per la cooperazione internazionale di Polizia, abbiamo visto gli uomini dell’ufficio interforze della Direzione centrale della Polizia criminale portarla in braccio e in spalla lungo i corridoi dell’aeroporto. Lei bionda, una testolina piccola e ribelle al cammino affettuoso di quegli omoni e di una donna in divisa, avvitata alle immagini che in fretta sorpassava, che le venivano incontro. Abbiamo letto che i suoi genitori committenti italiani l’hanno abbandonata a una baby sitter arruolata con una agenzia interinale in Ucraina poco dopo averla riconosciuta. Semplicemente, quel prodotto ordinato, non lo volevano più.

Era successo anche a Bridget, che allora aveva tre anni: ucraina ma senza cittadinanza; orfana, perché i genitori americani che avevano pagato una donna per metterla al mondo nel paradiso europeo della maternità surrogata non volevano una bambina handicappata; viva, perché nessuno aveva dato seguito alla richiesta della coppia di “interrompere i trattamenti” che la tenevano in vita alla nascita. La sua casa era diventata una “casa di cura” per bambini disabili e con malattie croniche; non aveva una mamma ma una infermiera. E questa era la storia di Bridget. Non sappiamo se la storia della bambina dal nome di fata somiglia a questa, nessuno sa perché è stata abbandonata. Sappiamo solo che la sua, al pari di quella di Bridget, è un’altra storia delle catastrofi scatenate dall’industria dell’utero in affitto. Consolato italiano, procura della Repubblica di Novara territorialmente competente, Procura della Repubblica di Minori, Scip, Croce Rossa. Non c’è una mamma o un papà ma c’è questo, nella storia della piccola rimpatriata insieme ai suoi peluche preferiti. Mano nella mano della polizia, è stata affidata a una “nuova famiglia italiana” (e che a questi genitori vada tutta la grazia, amicizia e aiuto di cui siamo capaci).

Black friday dei bambini e piantini dei media

Resta, nelle immagini della piccolina che sgambetta incerta tra poliziotti che le porgono le mani, abituati a rimpatriare criminali, il fermo e certo contraltare a tutte le gallery al miele con cui i media (oggi tutti contriti e impegnati a usare e commentare le le immagini della piccola) con le mezze misure, le trappole semantiche (“gestazione per altri”), hanno lastricato la via per l’inferno dell’utero in affitto, tutto sorrisi di Hollywood, amore e altruismo. L’utero in affitto è – come ha ben scritto Avvenire – il black friday dei bambini venduti come una lavatrice, acquistabili con lo sconto e incentivi alla Biotexcom che, non paga dello schifoso spettacolo offerto lo scorso anno, «oggi offre uno sconto del 3 per cento sui “pacchetti”, compresi quelli per la surrogata. Ma bisogna affrettarsi: il contratto deve essere firmato tra il 15 e il 26 novembre. Il 3 per cento non è un gran sconto, eppure può tradursi in quasi 2mila euro di risparmio sui 64.900 di listino del pacchetto “All inclusive Vip”, che comprende “tentativi illimitati” per la selezione del sesso del bimbo e un tempo di attesa al massimo di 4 mesi (non si dice che per queste strabilianti possibilità diversi embrioni saranno scartati e una donna sarà “messa al lavoro” come gestante con una paga da sopravvivenza)». Il listino di Biotextcom parla di «ovociti freschi per garantire il massimo del risultato» e c’è da chiedersi quanto ancora dovremo invocare la fine di tutto questo: la fine dell’osceno, scintillante e criminale mercato dei figli.

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