Il Deserto dei Tartari

Perché Europa e Obama farebbero bene a cercare di capire i vari Putin e Orban anziché trattarli da mostri

L’infornata di sanzioni Ue contro Mosca appena approvata dai governi europei era inevitabile ed è appropriata: a prescindere da ogni altra considerazione di politica e di diplomazia internazionali, chi destabilizza un paese confinante armandone i ribelli con sistemi bellici così sofisticati che costoro non sono capaci di usarli, e finiscono per abbattere un aereo civile uccidendo 300 innocenti, merita una punizione. Non ci sono giustificazioni per fatti del genere, come non ce ne sono quando l’artiglieria israeliana colpisce le scuole dell’Onu dove hanno cercato riparo i civili palestinesi e non ce ne sono quando i razzi palestinesi seminano il terrore nelle cittadine israeliane.

Trovo invece patetica la crescente demonizzazione di Vladimir Putin, indicato sempre più come l’uomo da abbattere affinché tutto torni alla normalità, e la cooperazione fra Russia, Usa e Unione Europea in vista del trionfo universale della convivenza pacifica, della liberaldemocrazia e dell’economia di mercato globalizzata ricominci come ai bei tempi della presidenza Eltsin.

Le esperienze del passato sembrano non avere insegnato nulla: l’opinione pubblica occidentale ha creduto che bastasse sbarazzarsi di Saddam Hussein, di Mubarak o di Gheddafi per vedere trionfare la libertà e la democrazia nel mondo arabo, salvo poi scoprire che le cose erano meno semplici di quanto pareva dall’esterno. Il conflitto israelo-palestinese? Una volta fuori gioco Sharon e Arafat, nemici che si reggevano reciprocamente, israeliani e palestinesi più flessibili dei loro due capi avrebbero trovato la quadratura del cerchio. Infatti… Adesso si pensa la stessa cosa di Putin, di Bashar el Assad e persino di Erdogan, capo di governo turco eletto e rieletto ogni volta con maggioranze sempre più ampie.

L’idea che un dittatore o un leader autoritario o semi-autoritario siano espressione di una specifica e irripetibile costellazione storica, sociale, culturale, politica ed economica continua a non sfiorare le menti della maggior parte dei commentatori e della gente comune. Per l’americano e l’europeo medi, intrisi di cultura individualista, il dittatore o l’uomo forte sono espressione di se stessi e di una volontà di potenza individuale, niente di più. Quando il loro modo di fare politica crea dei problemi all’Occidente, la cosa da fare perché spariscano quei problemi è far sparire il disturbatore in persona. Certo, ci sono pur sempre politici e intellettuali di alto profilo – come Henry Kissinger, Mikhail Gorbaciov, Stephen Cohen – che spiegano che in realtà il leader del Cremlino fa quello che qualunque capo di Stato russo avrebbe fatto in circostanze analoghe, perché nessun governante moscovita può permettere che l’Ucraina scivoli nell’area politico-militare della Nato. Ma sono in minoranza e le loro idee non vengono prese in considerazione.

Qualcosa però si sta muovendo, e merita attenzione e approfondimento, senza giudizi precipitosi: le situazioni si stanno evolvendo sotto i nostri occhi. Ha fatto scalpore un discorso del premier ungherese Viktor Orban (foto a sinistra) pronunciato il 26 luglio scorso. Dopo aver premesso che l’esperienza della crisi finanziaria internazionale dimostra che «gli stati liberaldemocratici non sono in grado di restare competitivi a livello globale», ha affondato un colpo sbalorditivo: «Non credo che la nostra appartenenza all’Unione Europea ci precluda la possibilità di edificare un nuovo stato illiberale, basato sulle nostre fondamenta nazionali», ha detto.

Il progetto avrebbe due motivazioni. Una di tipo identitario: «l’Ungheria non è un’ammucchiata di individui, è una nazione», ha detto il primo ministro. Mentre libertà e democrazia devono continuare a prevalere, l’ottica dei diritti individuali dovrebbe lasciare posto all’etica dei doveri verso il proprio popolo. Poi ci sono motivi economici. La globalizzazione economica e la liberaldemocrazia individualistica sono un binomio che sembra non funzionare: con la relativa eccezione degli Usa, che sono pur sempre la potenza dominante, e della Germania favorita dall’architettura dell’euro, i paesi che sembrano reggersi meglio non appartengono all’Occidente: «Oggi il mondo cerca di capire la natura di sistemi che non sono occidentali, che non sono liberali e fore non sono nemmeno democrazie, ma che hanno successo». I nomi? Orban menziona Singapore, Cina, India, Russia e Turchia. Sono alcuni dei paesi i cui leader sono maggiormente criticati nella stampa europea e statunitense.

A parte la disinvoltura con cui Orban mette insieme sistemi che si possono definire democratici con altri che non lo sono minimamente, è vero che un numero crescente di paesi che non appartengono all’Occidente e che spesso non condividono i suoi valori stanno ottenendo successi politici e/o economici. A volte anche quando l’economia rallenta, il consenso per i governi resta alto. Il tasso di approvazione di Vladimir Putin, il nuovo “uomo nero” dei media occidentali, all’inizio di giugno aveva toccato il massimo storico dell’83 per cento. Anche Erdogan, che nei mesi delle proteste di piazza Taksim era sceso dal 59 del 2013 al 39 per cento, è risalito oltre il 50 per cento ed è il favorito assoluto per le presidenziali del 10 agosto. Nell’aprile scorso Viktor Orban, la bestia nera della Commissione europea e del Parlamento europeo, ha vinto un nuovo mandato da primo ministro col 44,5 per cento dei voti.

Effettivamente siamo in presenza di due problemi. Il primo è che il modello politico occidentale, presentato come la sintesi perfetta di prosperità, giustizia sociale, economia di mercato, libertà pubbliche e private, sistema politico democratico non attira più come in passato. Gli europei per primi avvertono i suoi limiti. In un mondo dominato dai movimenti dei grandi capitali e dalla finanziarizzazione dell’economia, dove tutti i paesi sono costretti a praticare le stesse politiche economiche e sociali fin nei dettagli per non veder esplodere il debito sovrano, dove il margine di manovra dei parlamenti nazionali si fa sempre più stretto perché l’80-90 per cento delle norme viene decisa non democraticamente a Bruxelles, dove le sentenze dei tribunali costituzionali, delle Corti europee e delle Corti d’appello stabiliscono quali leggi possono essere approvate dalla volontà popolare e quali no, dove le varie leggi nazionali sulle varie “fobie” riducono costantemente lo spazio della libertà di parola, viene da interrogarsi se quella che vige sia democrazia sostanziale e se le libertà siano formali o reali.

Le leggi e la pressione del conformismo culturale ci obbligano a parlare in un certo modo e ci puniscono con l’emarginazione o con sanzioni penali se deroghiamo, i giudici cassano le leggi che abbiamo approvato votando per un certo partito (per esempio quella sulla fecondazione eterologa; e a Strasburgo stavano per mettere fuorilegge i crocefissi nelle scuole, se non fosse intervenuta la Grand Chambre), i mercati finanziari e i vincoli della moneta unica europea decidono al posto dei governi cosa si può fare e cosa non si può fare. È ancora democrazia questa? È ancora libertà?

Poi c’è l’altra grande questione: l’incapacità di guardare agli altri come altri, di dare un significato all’alterità. Così il russo è solo un euro-asiatico politicamente immaturo, che si è lasciato sedurre e manipolare dal proprio capo supremo. Liberiamo il minorenne russo, incline a credere a tutto ciò che la propaganda di Stato gli propina, dal suo tutore, e Mosca diventerà come Belgrado: una capitale di tradizione slavo-ortodossa desiderosa di omologarsi in tutto e per tutto ai canoni dell’Unione Europea.

Il paragone fra la Serbia di Milosevic e la Russia di Putin l’ho letto nelle pagine dell’autorevolissimo New York Times: secondo Roger Cohen bisogna trattare Putin come Milosevic, e la Russia farà lo stesso percorso che ha fatto la Serbia. Forse Cohen farebbe bene a ricordarsi come trattammo la Russia al tempo della crisi del Kosovo. A Mosca c’era Eltsin, che pur protestando molto di fatto dette il via libera ai bombardamenti Nato su Belgrado e sulle truppe serbe in Kosovo, perché non minacciò un intervento militare. Quando Belgrado capitolò, Mosca fece da mediatrice fra la Serbia e la Nato per le decisioni relative all’ingresso delle truppe euroatlantiche in Kosovo e chiese di potere avere un ruolo. Venne tenuta fuori come un lebbroso. Eltsin dovette mandare i suoi parà nottetempo all’aeroporto di Pristina, in una specie di blitz insensato – i parà russi erano un’isoletta circondata dai militari degli altri paesi- per dare al mondo l’impressione che la Russia stava sorvegliando le attività della Nato in Kosovo.

Con questi precedenti – oltre alle promesse tradite fatte a suo tempo a Gorbaciov di non accogliere nella Nato i paesi che uscivano dal Patto di Varsavia – non c’è da stupirsi della politica di Putin. L’ex ufficiale del Kgb ha fatto quello che qualunque altro presidente russo avrebbe fatto. Dopo avere rimesso un po’ in piedi la Russia dal punto di vista economico e del funzionamento delle istituzioni (al tempo di Eltsin c’era una bellissima libertà di parola e di stampa, ma più povertà che sotto il comunismo e la paralisi completa dei servizi pubblici) il nuovo leader ha cercato di restaurare la forza della Russia come grande potenza e di bloccare l’espansione della Ue e della Nato in direzione di Mosca.

In Ucraina sta perdendo la partita, come tutti capiscono sin dai giorni dell’occupazione della Crimea. Ma se Putin dovesse uscire di scena perché l’Ucraina scivola definitivamente verso Washington, le probabilità che a ciò corrisponda una democratizzazione e liberalizzazione della vita politica russa sono pari quasi a zero. Ha scritto George Friedman su Stratfor, il principale sito internet americano di geopolitica: «Coloro che pensano che Putin sia allo stesso tempo il più repressivo e il più aggressivo leader russo immaginabile dovrebbero riflettere che le cose non stanno così. Lenin, per esempio, faceva paura. Ma Stalin fu molto peggio. Potrebbe venire un tempo in cui il mondo guarderà a Putin come a un tempo di liberalità. Perché se la lotta di Putin per sopravvivere e dei suoi sfidanti interni per spodestarlo dovesse diventare più intensa, la disponibilità di tutti a diventare più brutali potrebbe ugualmente crescere».

La Russia sta destabilizzando l’Ucraina, su questo non ci piove. Ma anche la Ue e la Nato stanno destabilizzando la Russia, consapevolmente o inconsapevolmente. Non stanno semplicemente osteggiando un leader autoritario: stanno mettendo in pericolo l’esistenza politica e istituzionale della Russia. Gli europei probabilmente sono in buona fede, e credono di poter fare della Russia un’altra Serbia, convertita all’europeismo dopo la caduta di Milosevic; ma gli americani pensano a una Russia serbizzata in un altro senso: un’entità politica smembrata di diritto o di fatto, gestita da oligarchi ai quali sarebbero affidati spazi territoriali specifici, la quale non costituirebbe più una minaccia geopolitica per gli Usa.

Insomma, all’amministrazione Obama non dispiacerebbe se la Russia andasse in pezzi, come ci stanno andando Siria e Iraq. Ai tempi di G.W. Bush la linea ufficiale consisteva nell’esportazione della democrazia, che avrebbe trasformato i nemici in amici. Al tempo di Obama, più realisticamente si mira a disintegrare dall’interno i nemici. Resteranno nemici, ma non nuoceranno più. Nella democrazia come sistema universale prima di tutto sembrano non crederci più gli americani, cioè quelli che l’hanno inventata.

@RodolfoCasadei

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6 commenti

  1. M. Grazia Tassano

    Condivido questa impostazione, mi pare che spieghi a tutt’oggi quanto avviene, anche xché 3 settimane fa, ca. me n’ha parlato un emigrato dell’Est che ha conoscenza diretta dei problemi – e dei morti, fra cui tanti giovani . M’ha detto che finché della cosa non s’occuperanno direttamente Putin e Obama in un confronto diretto, le cose continueranno a precipitare. Per questi motivi apprezzo questo articolo, tardivamente letto.

  2. MARIO

    La democrazia invenzione degli americani?ma dove ha studiato storia??Si tenga Putin , orban ,erdogan noi preferiamo l’Europa.

  3. Leo

    Ma come si fa ad introdurre un articolo in questa maniera ?
    Se non si degna di ascoltare i dettagliati resoconti delle autorità russe (perchè cattive per definizione, si sa) vada a vedere la foto del cockpit dell’aereo malaysiano con i fori di entrata e di uscita di una mitragliata causata da un caccia !

  4. Giuseppe

    L’introduzione consta di sei righe in tutto, e non mi pare per niente fuori luogo o antirussa. Volendo, uno potrebbe dire che tutto il resto dell’articolo è antiamericano e/o antieuropeo, ma sarebbe in evidente malafede.
    Preferisco considerare la sostanza dell’articolo, che è tanta e condivisibile.
    Certo, Putin e Orban non sono il massimo dell’eleganza [diciamo così …], ma pare abbiano almeno ben chiaro l’obiettivo di non farsi infinocchiare dalla cultura antiumana dominante nell’occidente.
    Consiglio anche di leggere su “la Bussola quotidiana” il bell’articolo di Stefano Magni “L’avanzata dell’Isis. Il silenzio di Obama”, assolutamente coerente e complementare a quello che stiamo commentando.
    Un saluto a tutti.

  5. Paolo

    Articolo interessante, a parte la patetica introduzione anti-russa, fuoriluogo e grottesca, che rischia di appiattire l’opinione dell’Autore al solito mainstreaming domninante.

  6. augusto

    Le elites Europee hanno capito fin troppo bene sia Putin che Orban, per questo li combattono, come fanno con tutti coloro che si oppongono ai loro piani.

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