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In Pakistan un’orda islamista tortura e brucia vivo un uomo accusato di blasfemia

Il manager di una fabbrica del Punjab, originario dello Sri Lanka, aveva staccato un manifesto con sopra dei versetti del Corano. Circa 1000 estremisti lo hanno preso, picchiato a morte e dato alle fiamme

Leone Grotti
07/12/2021 - 6:27
Esteri
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Commemorazione per Kumara Diyawadanage, manager originario dello Sri Lanka, ucciso in Pakistan per false accuse di blasfemia

«Spoglie mortali di Don Nandrasri Priyantha Kumara Diyawadanage. Da Lahore a Colombo». Sono queste le parole incise sulla bara di legno del manager originario dello Sri Lanka, linciato e bruciato vivo nella provincia del Punjab, in Pakistan, dopo essere stato accusato per ragioni pretestuose di blasfemia. La bara dell’uomo di 49 anni, che ha lasciato la moglie e due figli, è arrivata ieri nella capitale dello Sri Lanka.

Le accuse di blasfemia

Un’orda di mille islamisti, molti dei quali membri del partito estremista Tehreek-e-Labbaik Pakistan (Tlp), hanno assassinato venerdì Kumara Diyawadana, direttore generale da sette anni di una fabbrica della Rajco Industries situata a Sialkot, nel Punjab.

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Il mattino del 3 dicembre, dovendo ristrutturare il muro esterno della fabbrica, Diyawadana ha strappato dei cartelloni del Tlp, sopra i quali  sarebbero stati stampati anche alcuni versetti del Corano. Centinaia di islamisti, assetati di vendetta, si sono da subito assiepati davanti ai cancelli della fabbrica accusando il direttore di blasfemia.

Torturato e bruciato vivo dagli islamisti

Nel primo pomeriggio sono riusciti a fare irruzione nella fabbrica e a trovare l’uomo, che si era rifugiato sul tetto. Dopo averlo preso, lo hanno portato in strada, picchiandolo e torturandolo selvaggiamente con pietre, calci e bastoni, arrivando a rompergli «quasi tutte le ossa», come stabilito dall’autopsia. Infine gli hanno dato fuoco. Come testimoniato da numerosi filmati circolati online, dopo averlo ucciso, molti estremisti islamici si sono scattati selfie festanti insieme al cadavere. Solo un uomo, il responsabile della produzione, Malik Adnan, ha cercato di difendere il titolare facendogli scudo con il suo corpo, ma è stato sopraffatto dal numero degli islamisti.

Non ancora soddisfatta, la folla ha poi cercato la casa del proprietario della fabbrica per ucciderlo. Ma l’intervento delle forze dell’ordine ha evitato un ulteriore spargimento di sangue, così come l’incendio dell’intera fabbrica. La polizia ha arrestato un totale di 131 sospettati, 26 dei quali sarebbero responsabili di aver dato fuoco a Diyawadana.

«Giorno di vergogna per il Pakistan»

L’ennesimo omicidio in base a false accuse di blasfemia ha scosso il Pakistan. Il primo ministro Imran Khan ha denunciato «l’orribile attacco» definendo il 3 dicembre un «giorno di vergogna per tutto il paese. Tutti i responsabili saranno puniti con severità». La verità è che il governo è debole e gli islamisti sono liberi di imporre sui cittadini inermi la loro tassa di sangue. Il Tlp, infatti, era stato messo al bando dall’esecutivo di Khan, ma dopo una serie di violente proteste da parte degli islamisti, durante le quali a ottobre hanno ucciso anche sei poliziotti, il divieto di aderire all’organizzazione è stato tolto per placare le manifestazioni.

Fino a quando il Pakistan non cancellerà o riformerà profondamente la legge “nera” sulla blasfemia, dando il via così a una radicale trasformazione culturale nel paese, omicidi come quello di Diyawadana continueranno senza sosta. La legge sulla blasfemia, punibile anche con la pena di morte, viene infatti utilizzata dagli islamisti per instillare il terrore e per ottenere indebiti vantaggi economici.

La legge “nera” sulla blasfemia

Poiché chi uccide un blasfemo è considerato un «eroe dell’islam» in Pakistan, chi viene accusato, anche ingiustamente, non ha scampo. Gli islamisti non attendono i processi per accertarsi se il malcapitato abbia o no violato la legge, chi si ritrova sotto la spada di Damocle di un’accusa di blasfemia rischia sempre di essere ucciso. E anche un’assoluzione non basta per placare il desiderio di vendetta degli estremisti, motivo per cui anche chi viene scagionato da ogni addebito deve fuggire dal paese o vivere nascosto per il resto della sua vita.

Le infermiere cristiane, Tabita Nazir Gill, Mariam Lal e Navish Arooj, accusate ingiustamente, vivono nascoste in attesa del processo. I cristiani Shagufta Kausar e Shafqat Emmanuel, assolti dopo aver passato sette anni nel braccio della morte, non avranno mai più una vita normale. Saiful Malook, l’avvocato musulmano che li ha fatti assolvere, dopo aver liberato anche Asia Bibi, viene costantemente minacciato di morte.

Catena di omicidi senza fine

Si potrebbero poi ricordare i casi di Sawan Masih, la cui ingiusta accusa di blasfemia portò ai pogrom di Joseph Colony, Tahir Shamim Ahmad, ucciso dentro l’aula di tribunale mentre veniva giudicato, Salman Taseer, governatore musulmano del Punjab assassinato per aver difeso Asia Bibi, Shahbaz Bhatti, ministro cattolico per le Minoranze ucciso per lo stesso motivo, Shama e Shehzad Bibi, coppia cristiana bruciata viva in un forno per cuocere i mattoni, Khalid Hameed docente del college governativo Sadiq Egerton, accoltellato a morte per aver organizzato una festa di benvenuto per le nuove matricole senza però separare maschi e femmine, Mashal Khan, giovane studente universitario linciato a morte nel campus da decine di compagni nel 2017 per false accuse di blasfemia.

Si potrebbe andare avanti ancora: la lista dei «giorni della vergogna» per il Pakistan è lunga. Il governo, ostaggio degli islamisti, non riesce a intervenire e le sue parole cadono nel vuoto, mentre i responsabili di orrendi omicidi restano impuniti. Se davvero vuole vendicare la morte di Kumara Diyawadana, inizi cancellando per sempre la legge sulla blasfemia.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

Tags: blasfemiaCristiani PerseguitatiIslamlegge sulla blasfemiaPakistansri lankaTerrorismo Islamico
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