Macché patrimoniale, viva il piano Tremonti per ricostruire
La proposta di Tremonti, formulata sulle colonne del Corriere della Sera del 30 marzo scorso, ha, come cercherò di mostrare, realistiche basi economiche. Speriamo che abbia anche le necessarie basi morali.
È vero infatti che l’Italia ha un debito pubblico elevato ma ha per contro un debito privato modesto e una notevole ricchezza.
I grafici aiutano a capire meglio di tante parole.
Il debito delle famiglie italiane sul Pil è il più basso dell’eurozona.
Anche il debito delle imprese è tra i più bassi.
È in effetti nel debito pubblico che siamo messi male.
Bene, sommando i tre debiti, quello delle famiglie, delle imprese e pubblico, arriviamo grosso modo al 240 per cento del Pil. La virtuosa Olanda, che tanto ci massacra, ha il 326,3 per cento, la Finlandia che fa altrettanto, il 237,1 per cento, grosso modo come noi. L’Austria il 211,2 per cento, la Francia il 299,6 per cento. La media europea è il 247,8 per cento.
Ora, non sono così semplicista dal ritenere che il debito pubblico è uguale al debito privato. Il debito pubblico incide sullo Stato. E lo Stato non è un soggetto qualunque. È il luogo in cui la nazione si organizza e si difende. Una impresa anche molto grande può fallire senza che il tutto venga compromesso. Se fallisce lo Stato è un disastro per tutti. «God save the Queen», cantano saggiamente gli inglesi.
Quindi “convento povero frati ricchi” è molto, molto pericoloso. È indice di un malessere, di uno squilibrio che nel lungo periodo porta alla rovina del convento e alla fine dell’ordine religioso.
In Italia il rapporto tra debito pubblico e Pil inizia a crescere all’inizio degli anni Ottanta, dopo lo storico divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro voluto dalla buonanima di Beniamino Andreatta, si riduce nella fase preparatoria all’euro, quando ancora comunque l’Italia aveva una sua sovranità monetaria, si muove lateralmente (cioè non cresce né si riduce) nella prima fase dell’euro ed esplode dopo la crisi del 2007. E non è frutto della politica spendacciona dello Stato italiano (ma le vedono le buche nelle strade quelli che dicono che lo Stato spende troppo?), bensì della lunga stagnazione del Pil, sulle cui ragioni ho le mie idee, molto diverse da quelle di quanti pensano che sia dovuta ai “vizi degli italiani”.
Il grafico sotto dà una rappresentazione dell’andamento di questa grandezza in rapporto agli altri grandi paesi.
Bene, se questo è il lato passivo del bilancio italiano, all’attivo cosa troviamo?
Trascurando il valore – pur molto rilevante – del patrimonio pubblico e delle società, e fermandoci a considerare solo la ricchezza delle famiglie, risulta che alla fine del 2017 gli italiani detenevano attività reali per 6,3 triliardi, attività finanziarie per 4,3 triliardi, con un saldo netto di 10,6 triliardi, cioè qualcosa come 5 volte il Pil di un anno.
Tanto premesso, come si direbbe, veniamo alla proposta del professor Tremonti.
Tremonti dice, in sostanza, è inutile andare a pietire aiuti dall’Europa. Chi fa da sé fa per tre. L’Italia ha l’enorme bacino di ricchezza delle sue famiglie a cui attingere. E può fare in due modi.
Come dice qualche sacerdote dell’austerità, non a caso riprendendo i recenti “consigli” del capo economista della Bundesbank Karsten Wendorff, mettendo una bella imposta patrimoniale. Ma ciò, dice Tremonti, dirotterebbe «verso lo Stato capitali attualmente depositati o investiti in banche e assicurazioni, le farebbe fallire, così creando un disastro ancora peggiore di quello che si vorrebbe evitare». E dico io, avrebbe un enorme effetto depressivo sullo spirito nazionale, allargando il solco che già c’è tra popolo che lavora e produce, specie del Nord, e ceto politico, facendolo diventare un baratro e innescando pericolose spinte autoritarie magari eterodirette (ci vorrà l’uomo forte infatti per imporre una misura del genere).
Il secondo modo è fare appello alla convenienza e allo spirito patriottico del popolo offrendogli uno strumento ad hoc in cui investire. Uno strumento di debito per la difesa e la ricostruzione nazionale che abbia una lunghissima scadenza, sia esente da imposte dirette e di successione, abbia un rendimento decente e sia garantito dai beni pubblici.
Tremonti ricorda il piano fatto nel 1948, nella fase della ricostruzione post bellica, e voluto da tutta la dirigenza politica italiana, Togliatti compreso, di cui cita la bella frase: «Il prestito darà lavoro agli operai. Gli operai ricostruiranno l’Italia».
Tremonti allude poi a un problema molto grave. Quello del collocamento dei titoli pubblici e della separazione tra Tesoro e banca centrale, che in Italia, come ho ricordato, avvenne nel 1980, e fu causa dell’impennata del costo del debito, e venne poi cristallizzata nelle regole europee. La Germania ha subito compreso la pericolosità di questa situazione e ha creato sotto il proprio ministero del Tesoro nel 2000 – all’avvio dell’euro – un’agenzia per il collocamento del debito, la Finanzagentur, la cui funzione è tenere parcheggiati i titoli non immediatamente collocati sul mercato primario per essere poi venduti a tempo opportuno e ai giusti prezzi.
È un modo per fare rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta: l’acquisto dei titoli pubblici da parte della banca centrale. Infatti è vietato per le banche centrali essere acquirenti di titoli pubblici in sede di primo collocamento, ma non di acquistarli sul mercato secondario. Ciò consente alla Bundesbank di governare, come è giusto che sia, i prezzi dei suoi titoli e di agire potentemente contro la speculazione.
Questo è un elemento non irrilevante, perché incide sulla capacità delle autorità italiane di governare il debito evitando ove possibile manovre speculative e shock che potrebbero minare la fiducia dei risparmiatori (per una analisi di questo importante aspetto consiglio di leggere il bell’articolo di Marcello Minenna sul Sole 24 Ore del 6 gennaio 2020).
È chiaro che l’eccezionalità della situazione e il fallimento delle politiche basate sul tabù “magico” – come direbbe Giulio Sapelli – del debito dovrebbe imporre, secondo Tremonti, una revisione del dogma della separazione tra Tesoro e banca centrale. È questo un tassello tecnico fondamentale del puzzle, perché questo prestito a lunga scadenza deve potere contare su un usbergo contro la speculazione e un mercato secondario che sia liquido e veda nell’autorità monetaria un rifugio finale certo.
Certo Tremonti non teorizza l’uscita dall’euro. Lo fa per realismo, secondo me. La situazione è già troppo complessa per inserirci anche il ritorno alla lira. Ma bisogna sapere che la conservazione della valuta comune fa rimanere l’Italia dentro un meccanismo competitivo molto falsato, che fa soffrire al paese, in specie al Sud, le “doglie” del parto per mettersi sul piano dei partner del Nord Europa (di questo ho scritto recentemente). E questo accentua la portata della sfida che l’Italia ha davanti.
Se il quadro economico in cui si colloca la proposta di Tremonti, pur con la difficoltà di restare nella moneta europea, la fa ritenere fattibile e di gran lunga preferibile alla violenza autoritaria della patrimoniale, resta da esaminare un altro quadro, quello politico, ma io direi di più, quello morale.
Fare debiti per farli non ha nessun senso. Avrebbero ragione i tedeschi…
I debiti vanno fatti per avere le risorse per “ricostruire l’Italia”. Vale a dire per un gigantesco piano di opere pubbliche di cui il paese ha disperatamente bisogno e per salvare il nostro sistema produttivo dalle perdite provocate dalla gelata del coronavirus, mettendolo poi nelle condizioni di esprimere il suo potenziale nella competizione internazionale, favorendolo senza indulgere a un liberismo selvaggio e miope.
Il che richiede una classe politica che abbia la forza, la statura, la rettitudine, l’intelligenza di guidare il popolo.
C’è questa classe dirigente?
A guardare al passato si direbbe di no. Trenta anni di devastazione civile, di moralismo violento, di dossieraggi sistematici, dopo la stagione di Mani pulite, non sono passati invano. Il venir meno dei partiti, dei corpi intermedi, l’invasività dei social media, l’affermazione degli arcobalenici diritti e la negazione dello statuto dei doveri, dei legami, lo svaporarsi della diversità culturale della Chiesa, non sono passati invano.
Può essere questa pandemia la causa di una resurrezione civile e morale della nostra Italia?
Ecco, su questo io taccio. Lo spero, ma non mi abbandono ad alcuna facile illusione, all’hashtag idiota dell’#andratuttobene, alle frasi fatte sulla capacità degli italiani di tirare fuori il meglio di sé nelle difficoltà.
Taccio, ma spero che la sofferenza del popolo generi il miracolo.
Foto Ansa
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