Dalla pandemia la possibilità della resurrezione. Un saggio di Sapelli
Nel bel mezzo dell’emergenza coronavirus, Giulio Sapelli, accademico di calibro internazionale che da dirigente d’azienda ha praticato l’economia non solo in cattedra ma anche sul campo, storico, perfino premier in pectore nella primavera 2018, ha firmato un libro – appena uscito per Guerini, in coedizione con Goware per la versione digitale – che parla di “Pandemia e resurrezione”. Lo ha letto per Tempi l’avvocato Stefano Morri, che pochi giorni fa ci ha concesso un’ampia intervista sui medesimi argomenti. Completano il saggio i contributi di Giuseppe De Lucia Lumeno e Alessandro Mangia.
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Il titolo, Pandemia e resurrezione, dice già tutto di questo libro, che si muove continuamente tra un livello molto pratico, economicistico, ed uno morale, anzi metafisico, come è d’altra parte nella vita reale, dove il fenomeno non può essere scisso mai dal suo senso o dalla domanda di esso.
Così pandemia ha un suo crudo e piano senso scientifico, ma subito trasfigura nel suo sostrato simbolico di nemesi, culmine di un processo storico, trigger event di morte o catarsi.
E la parola resurrezione, che ci balza addosso con il suo enorme carico di suggestioni, è allo stesso tempo parola semplice: significa rialzarsi. E ben potrebbe essere sostituita dalla parola, tanto economicisticamente usata, di ripresa.
E non poteva che essere così con Sapelli, che è sì un economista, ma come tutti i grandi economisti, a partire dal loro fondatore, è soprattutto un intellettuale finissimo e un filosofo, un filosofo morale. E in un tempo in cui si teorizza che l’economia possa vivere senza metafisica, in cui anzi le università che si dicono economiche impoveriscono questa disciplina, riducendola a qualche formula sul come provvisorio delle cose, dimenticando del tutto, in un tracotante vanto, il problema del senso, leggere Sapelli è come fare un tuffo rigenerante, come andare a Messa la mattina presto, o sentire una musica antica e bella.
Così questa del coronavirus diventa la vicenda inattesa e imprevedibile che mette a giorno, davanti ai popoli, le contraddizioni del processo storico che ne è vittima e al contempo causa. È un prisma che scompone la luce sociale e consente di vedere e di capire cosa è accaduto e sta accadendo.
Il saggio, o forse il pamphlet, procede per capitoli agili e incredibilmente ricchi di sofisticati richiami culturali, storici, filosofici: quasi quadri di un affresco al cui centro sta il volto sofferente dell’umanità colpita dal morbo.
Vi è anzitutto la critica della democrazia liberale come forma incapace di creare la sintesi tra liberalismo e socialismo. Ed anzi fautrice di polarizzazione delle ricchezze e dei destini sociali, come mai fu nella storia. Ascensore sociale bloccato, élite staccate dalle masse, struttura sociale deprivata dei corpi intermedi e sempre più governata in chiave funzionalistica e tecnocratica da sovrastrutture internazionali. Ma la realtà si vendica. E sotto la globalizzazione finanziaria, nello svuotamento delle strutture costituzionali degli Stati a vantaggio di sovrastrutture internazionali, nel prevalere dell’interesse privato su quello pubblico, sempre e costantemente diffamato come corrotto, inefficiente, incapace di rispondere ai bisogni, si è formato un blocco eversivo di piccole e frammentate realtà economiche «che non possono lavorare in smart working» in disperata ricerca di una rappresentanza, prima che politica, culturale. Blocco particolarmente presente in Italia, cui essa deve quel po’ di benessere che ancora ha, e da cui l’attuale dirigenza politica è sideralmente distante.
L’analisi sulla globalizzazione è lucidissima. Fatta quella della finanza, resta da compiere quella della manifattura. Mission impossible per i conflitti tra le nazioni, con la Cina che svela il suo volto imperialistico, e dentro le nazioni, Francia e Stati Uniti avendo una doppia anima, agricola, e perciò protezionistica, e manifatturiera, e perciò liberoscambista. Questa diversa velocità, della finanza mondialista, e della produzione semi globalizzata o semi territoriale crea le crisi.
Interessante come Sapelli colga la contraddizione tra questa istanza globalista, che si mangia la forma Stato, il suo diritto costituzionale, e il risorgere delle nazioni. Le risposte alla crisi vengono dal sentimento nazionale e non certo dalle istituzioni internazionali. E così si assiste al paradosso di vedere nazioni rese deboli dalla promessa incompiuta degli effetti della globalizzazione, la nostra in testa, lasciate completamente sole. Il che fa riemergere potente la domanda di Stato «come unità di popolo che si riconosce in una comunità di destino» (Hintze). Di qui il rispetto per quei leader, Merkel, Johnson, che hanno messo il popolo davanti alla realtà della pandemia, vale a dire che il salvataggio della società avrebbe comportato un costo. Il che non significa non curarsi dei malati, ma porre il problema della loro tutela nel quadro generale della sopravvivenza della comunità, e dello Stato come sua espressione concreta e inevitabile.
E si arriva al discorso sulla Cina. Esso affonda nei primi anni del Quattrocento quando, sotto la dinastia Ming, la Cina si costituì come potenza marittima e il suo ammiraglio, Zheng He, compì viaggi memorabili fino all’Africa. La ritirata che ne seguì e il chiudersi in sé stessa della potenza cinese è ancora oggi un mistero storiografico. Sapelli legge l’ascesa al potere di Xi Jinping come la svolta che porta la Cina a trasformarsi da potenza di terra in talassocrazia, entrando così in conflitto con gli Stati Uniti per il controllo dello spazio asiatico. Il che dovrebbe portare a una reazione dell’Occidente, perché «la Cina non è un paese capitalista come quelli occidentali, ma un regime a capitalismo monopolistico di Stato controllato da una burocrazia dittatoriale protesa al dominio mondiale». E come nel Quattrocento il terreno del contenimento dell’espansionismo cinese sarà l’Africa, ove esso appare come «imperialismo da debito». In questo l’autore mostra la Francia come modello di azione, con la sua presenza neo coloniale. E censura, ovviamente, l’atteggiamento prono, privo di profondità storica, della politica estera italiana.
Amaramente gustosa la pagina sulle élite, ad iniziare dalla «signora avvocato Lagarde», epigona del «terribile Trichet, primo presidente della Bce e generatore delle politiche franco-tedesche che hanno scagliato l’Europa nella deflazione secolare in forma irreversibile». Cui potrebbe riuscire, con la sua battuta sullo spread, l’impresa di costringere la Germania ad una fuoriuscita violenta e improvvisa dall’euro. Lucida e informata l’analisi sul Mes, «trattato internazionale che si presenta ai più come un veicolo finanziario ma non ne ha né la forma né la sostanza», un «costrutto giuridico ircocervo tra diritto commerciale diritto dei trattati» cui si dovrà la «definitiva sottrazione della democrazia liberale del vecchio continente».
In un simile quadro, si colloca la fragile democrazia italiana, preda di «partiti pluripersonalistici con cacicchi a geometria variabile», per cui Sapelli invoca, lui che aborre i governi tecnici, un esecutivo di salvezza nazionale o di emergenza.
Il libro si chiude con la constatazione che la storia non è finita, e «l’equilibrio di mercato non esiste perché non esiste l’equilibrio della storia e nella storia». E la pandemia è parte di un processo. Ogni trasformazione sociale ha in sé un «evento sanitario». Pandemia sanitaria, ma anche culturale che scuote gli uomini, le società, le costruzioni sovranazionali, Unione Europea in testa.
Le ultime pagine ci riportano alla citazione del capitolo 8 della Lettera ai Romani di san Paolo, a quel gemere e soffrire le doglie del parto della creazione, che è continua, immanente. E ad un’altra citazione, tratta dall’enciclica di Benedetto XVI, Spe salvi. Ecco, il libro di Sapelli è, proprio perché così crudo, così tremendamente e profondamente informato, un libro pieno di speranza. La speranza che nasce dalla conoscenza, dalla cultura.
Pandemia e Resurrezione, appunto.
Foto Ansa
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