Il populismo, secondo la definizione della Treccani online, è l’«atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi». L’accezione negativa non è quella originaria, perché – ricorda sempre la Treccani – il termine viene dal populismo russo che alla fine del XIX secolo «si proponeva di raggiungere, attraverso l’attività di propaganda e proselitismo svolta dagli intellettuali presso il popolo e con una diretta azione rivoluzionaria (culminata nel 1881 con l’uccisione dello zar Alessandro II), un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate, specialmente dei contadini e dei servi della gleba». Lo è diventata – negativa – nel corso del secolo successivo, quello delle ideologie assassine (come scrisse Robert Conquest). Sono stati decenni durante i quali i leader hanno arricchito il populismo di un rapporto diretto e carismatico con le masse (orrenda parola novecentesca in via d’estinzione), consolate dall’esercizio facile e vibrante dell’antipolitica.
Non erano apostoli dell’antipolitica i rivoluzionari populisti russi ma lo erano, in Occidente, Benito Mussolini e Adolf Hitler. Questo perché senza democrazia non c’è antipolitica, mentre l’antipolitica è spesso servita, come appunto in Italia e in Germania, per abbattere la democrazia. Un bel paradosso. Chi ha letto due o tre opuscoli sull’alba del fascismo e del nazismo ricorderà che prosperarono sull’esasperazione dei cittadini comodamente riversata sulle classi dirigenti. Mussolini era un trentenne nuovista, nemico delle lentezze parlamentari e del burocratismo ottocentesco, Hitler era il facile avversario dell’inconcludenza di Weimar, oltre che delle durissime condizioni di pace cui la Germania era stata sottoposta a Versailles . Di leader populisti ce ne sono stati a decine, nel Novecento, che è stata non soltanto l’età dei totalitarismi, ma anche del suffragio universale, del consenso, dei nuovi mezzi di comunicazione – dalla radio fino a internet – che fanno di ogni elettore una persona unica, speciale, a cui rivolgersi direttamente.
Oggi in Italia è difficile trovare un capopartito immune dal populismo e da un suicida esercizio dell’antipolitica. Tanto è vero che si danno dei populisti l’un l’altro ed è difficile negare il populismo di Beppe Grillo o di Silvio Berlusconi, ma anche di Matteo Renzi, senz’altro di Umberto Bossi e dell’intera stirpe leghista, e poi dei politici usciti dalla rivoluzione giudiziaria come Antonio Di Pietro e Antonio Ingroia. I radicali non sono populisti e infatti non pigliano un voto.
Grillo è tanto populista – e lo è consapevolmente, anche se poi si arrabbia se lo si dipinge così – da aver teorizzato che i parlamentari sono semplici portavoce del popolo, che dà loro istruzioni via internet. In ogni suo comizio, Grillo spiega che sono le persone più semplici, proprio perché non impantanate nella melma schifosa del potere, a produrre le idee migliori. Di conseguenza non coltiva rapporti nemmeno utilitaristici con altri partiti.
Gli onesti di qua, i ladri di là
Andando a rivedere gli esordi del 1994, si scopre che i punti in comune fra quel Berlusconi e questo Grillo sono spettacolari: Silvione rifiutava gli inviti in tv perché aveva orrore delle liti e sosteneva fosse sua missione parlare nelle piazze; come Grillo, poi, inizialmente rifiutò il titolo di onorevole, nel frattempo diventato disonorevole. Mani pulite e il 1992 erano questione dell’altroieri. Finalmente, grazie al lavoro della magistratura milanese, avevamo scoperto perché eravamo tanto poveri, infelici e sottomessi. Veramente venivamo dal mezzo secolo più prospero della nostra storia, ma niente: la convinzione generalizzata, con il contributo dei partiti di opposizione e della stampa, era che spazzata via la nomenclatura primorepubblicana saremmo decollati verso le terre della felicità. Abbiamo celebrato un processo sommario e tolto di mezzo una classe politica – ormai inetta e arrogante, ma col merito piuttosto decisivo di averci tenuto dalla parte giusta della storia.
Fu senz’altro un biennio di strepitoso populismo e di esuberante antipolitica: c’era il popolo dei fax, si lanciavano le monetine al capo socialista, si viveva nell’euforia (vista dal 2014 un po’ ridicola) di aver spezzato le catene. I successivi due decenni sono stati conseguenti. E oggi – sarà per via di internet che, come una volta i cortei di strada, arma le minoranze rumorose – il desiderio diffuso è di “mandarli tutti a casa”, come allora, e forse più di allora: mandarli tutti a casa, a prescindere, anche in assenza di un’alternativa; nel 1992-93 c’era desiderio di rinnovare la classe dirigente, oggi c’è desiderio di rinnovare il sistema; allora si aveva una gran voglia di democrazia, oggi della democrazia, così com’è, non ci si fida più.
Il populismo, l’antipolitica e la demagogia (che piacciono tanto a giornali e tv) nella loro versione contemporanea non sono però nati con Mani pulite. Sono nati una decina d’anni prima, e precisamente nel 1981 con la celeberrima intervista di Eugenio Scalfari a Enrico Berlinguer sulla questione morale. Quell’intervista segna un passaggio fondamentale perché per la prima volta – per la prima volta da un sacco di tempo – un leader basa la sua strategia politica sull’assunto che i partiti sono marci e che esistono i buoni e i cattivi.
L’inizio dell’intervista ha già un tono che è lecito sospettare di qualunquismo: «I partiti non fanno più politica». Poi: «I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia». Ancora: «Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune».
Il potere degli altri
La questione morale – è stato specificato frequentemente – non era tanto nella corruzione, ma nell’occupazione del potere. Ecco Berlinguer: «I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali». Tutto è stato lottizzato e spartito, dice. E Scalfari allora fa la domanda giusta: ma se le cose stanno così, è perché agli italiani vanno bene, se no voterebbero Pci. Risposta: «Si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più». Noi, aggiunge Berlinguer, «siamo un partito diverso» e «se l’occasione fa l’uomo ladro (…) le nostre occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati». Infatti lo sfascio morale ha una «causa prima e decisiva: la discriminazione contro di noi».
A questo punto serve un breve riassunto: in Italia la politica è immorale e il paese va a fondo; chi fa eccezione è il Partito comunista che è diverso e naturalmente i suoi elettori; gran parte degli italiani sono buoni, ma non possono votare Pci perché, poverini, sono sotto ricatto dei “boss” e delle “camarille” e non riescono a liberarsi; in definitiva, è la ragione per cui il Pci è escluso del governo: perché gli altri partiti possano continuare a rubare, a spartire, a taglieggiare il popolo.
Prima di concludere, un piccolo inciso: il Pci – lo sanno tutti – sarebbe entrato nel governo secondo il piano del compromesso storico terribilmente interrotto col sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. A quel punto, sostituito da Bettino Craxi e constatata la fine della forza propulsiva dell’Urss, che resta da dire a Berlinguer se non: siamo migliori, dunque ci fanno fuori? Che resta, quando si è tagliati fuori dai giochi, se non chiudersi nella casamatta della propria pretesa virtù?
Dove comincia il declino
Certo, Enrico Berlinguer aveva ragione. L’Italia (e lo è tuttora) era marcia, la politica era corrotta ed onnivora, il paese aveva a che fare con una devastante questione morale. Pessimo – e cioè populista e demagogico – fu aggiungere che dello sfacelo non aveva responsabilità il Pci né l’avevano gli italiani. Pessimo fu non ammettere che il partito comunista, stanco di aspettare una rivoluzione proletaria che non sarebbe arrivata, e rimesso ai margini della politica domestica, era nell’angolo per motivi storici, e non per santità. Che alla spartizione aveva partecipato e non poco secondo il progetto dell’egemonia culturale di Antonio Gramsci. Pessimo fu gettare le basi teoriche della superiorità antropologica della sinistra, un concetto quasi genetico della politica che non si vedeva dai tempi di Gottfried Feder, e sul quale (non solo, ma anche) si è inchiodata l’intera seconda Repubblica.
Pessimo, particolarmente populista e particolarmente demagogico, fu dire agli italiani che loro non c’entravano niente, negare che le società si muovono tutte assieme, crescono e declinano collettivamente, che il paese non funziona a cominciare dai comportamenti quotidiani furbini e disonesti di tutti noi, e dall’esercizio pigro, inconsapevole o opportunistico del voto. Pessimo – e Berlinguer avrebbe avuto molti imitatori – fu in definitiva dire agli italiani che erano vittime, e non correi. Adesso tenetevela l’antipolitica.