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Un altro mondo è possibile e c’è già. È la Russia di Vladimir Putin, anche se l’Occidente si rifiuta di capirlo

Grande intervista a John Mearsheimer, l'ultimo dei realisti americani, convinto che la guerra in Ucraina è colpa dell'espansionismo della Nato e della tracotanza "liberal"

Mattia Ferraresi
28/09/2014 - 4:00
Esteri
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New York. Le letture occidentali della crisi ucraina sono leggere variazioni su un tema che non ammette discussioni. La Russia è la potenza tracotante in cerca di spazio vitale; l’Ucraina la nazione oppressa che guarda a ovest per ottenere le libertà negate dal Cremlino. Vladimir Putin è un dittatore da romanzo distopico, una riedizione della leadership zarista con profonde interpolazioni sovietiche e idrocarburi con cui mantiene la sua legittimità, erede naturale di alcune fra le cose peggiori accadute nei due secoli che hanno preceduto quello corrente.

john-mearsheimer-fotoNon c’è dubbio su chi, in questa guerra, sia l’aggressore e chi l’aggredito, su chi si trovi «dalla parte giusta della storia», per attingere dalla fraseologia di Barack Obama, e chi invece la storia la vorrebbe congelare in uno status quo imperialista e retrogrado, un buco nero fatto di corruzione, violenza, ingiustizia sociale, sperequazione, negazione sistematica dei diritti, uso sbrigliato della forza tanto nelle piazze domestiche quanto sui confini. Di solito elenchi del genere si chiudono con inquietanti immagini della conferenza di Monaco.

John Mearsheimer (foto a destra), professore di scienze politiche all’Università di Chicago ed esponente della scuola realista, la pensa al contrario. Questa lettura del presente, spiega in un’intervista a Tempi, è viziata dallo stesso pregiudizio ideologico che ha annebbiato la vista dell’Occidente negli anni che hanno seguito il collasso dell’Unione Sovietica.

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È davvero così chiaro chi è l’aggressore e chi l’aggredito? Putin è davvero il leader paranoico e assetato d’influenza geostrategica che il mondo rappresenta? Mearsheimer sostiene che in realtà quello che sta succedendo sul confine ucraino è da imputare all’Occidente, che dalla fine della Guerra fredda ha promosso l’espansione della Nato a est pur sapendo che questo atteggiamento avrebbe scatenato la reazione della Russia. La crisi ucraina è l’inevitabile conseguenza di un processo in atto da oltre vent’anni. «A Washington la cosa può non piacere, ma deve capire la logica» delle azioni di Putin, ha scritto in un saggio breve sulla rivista Foreign Affairs.

Il punto troppo spesso trascurato è la discrepanza fra le concezioni geopolitiche di America e Russia. La Russia è una potenza realista interessata a mantenere a distanza le potenze in competizione; l’America, invece, ha aderito alla “visione del mondo liberale”, la quale postula la naturale convergenza di tutte le nazioni verso il modello democratico occidentale. I due mondi parlano lingue geopolitiche diverse. Che la Russia avrebbe reagito in modo aggressivo all’allargamento della Nato a oriente è cosa che i diplomatici del Cremlino hanno spiegato all’infinito alle loro controparti occidentali.

James Baker aveva promesso a Gorbaciov che l’America non avrebbe mai imposto la sua presenza militare oltre la Germania, condizione imprescindibile del Cremlino nella ridefinizione degli equilibri dopo la Guerra fredda: difficile tollerare una presenza americana nel territorio cuscinetto che dai tempi di Napoleone funge da barriera protettiva per Mosca. Il principio della reazione russa non è poi dissimile da quello imposto dalla dottrina Monroe, per cui gli Stati Uniti considerano un atto di aggressione la sola presenza militare di una potenza non alleata sul continente americano.

Nulla ha mai lasciato intendere all’America e all’Occidente che la concezione russa del potere fosse improvvisamente cambiata con la scomparsa dell’Unione Sovietica, e che dunque l’alleanza militare potesse avanzare fino al confine russo senza conseguenze. Le cose però sono andate proprio in quella direzione. Dieci anni dopo la caduta del Muro, l’alleanza atlantica ha avuto il suo primo round espansionistico a est, includendo Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia. Poi è stata la volta di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia.

Dopo la prima raffica di inclusioni, il teorico del contenimento sovietico, George Kennan, ha parlato di «tragico errore»: «Non c’era nessuna ragione per questa manovra, nessuno stava minacciando qualcun altro». Nel 2002 Ucraina e Georgia sono entrate nella fase preliminare del percorso verso la Nato, benedetto al summit di Bucarest nel 2008 da una dichiarazione inequivocabile: «Ucraina e Georgia diventeranno membri della Nato». Si dice che Putin a quel punto abbia detto personalmente a Bush che se l’Ucraina fosse entrata nella Nato avrebbe «cessato di esistere»; di certo il viceministro degli Esteri russo, Alexander Grushko, non ha fatto mancare una risposta formale altrettanto chiara: «L’accorpamento di Ucraina e Georgia nell’alleanza è un enorme errore strategico che avrà conseguenze serissime per la sicurezza europea».

Le conseguenze serissime ora sono sotto gli occhi di tutti, ma intorno alle cause si ragiona meno. Secondo Mearsheimer il motivo per cui oggi si combatte sul confine ucraino è da ricercare nella miope ideologia liberal che ha trovato la sua massima espressione nell’amministrazione Clinton.

Professor Mearsheimer, lei sostiene che questa guerra sia la conseguenza prevedibile dell’espansionismo della Nato. Ma allora perché alla fine della Guerra fredda l’America ha promosso quest’espansione?
La versione più comune dice che la ragione era il contenimento della Russia, ma non è così. I policy-maker che circondavano Clinton aderivano sinceramente a una visione liberal della politica internazionale secondo cui le istituzioni democratiche dell’America e dell’Europa occidentale erano gli strumenti privilegiati, se non unici, per ottenere pace e prosperità. Se ha funzionato in Occidente funzionerà anche in Russia, dicevano. E lo dicevano in buona fede, genuinamente animati dal desiderio di estendere il modello di pensiero al quale attribuivano la stabilità dell’Occidente. Senza contare poi che a quel punto la Russia era un paese disastrato, non era una minaccia per nessuno se non per se stesso, altro che contenimento. L’obiettivo finale era coinvolgere in qualche modo anche Mosca nell’alleanza.

Fondamentalmente era uno scontro di idee, dunque?
In ultima analisi sì, e oggi vediamo chiaramente che le idee hanno conseguenze molto reali. L’America negli anni Novanta era talmente immersa in questa idea della promozione della sua teoria geopolitica da non essere più in grado di concepire che altri paesi potessero aderire ad altre concezioni. Regnava a quel punto l’idea della fine della storia di Francis Fukuyama: la democrazia liberale era un destino ineluttabile. La Russia invece è rimasta fedele alla dottrina realista.

Obama, Merkel e altri leader occidentali amano dire che Putin è rimasto nel XIX secolo. È un altro segno di questo scontro fra visioni?
I liberal non si limitano a dire che il loro modello spiega il mondo in modo più fedele o preciso, dicono che è l’unico legittimamente ammesso in questo punto dell’evoluzione della società umana. È una dichiarazione implicita, un assunto. Tutto il resto viene relegato nello sgabuzzino della storia, è passato, non ha dignità. È esattamente per questo pregiudizio che viene naturale alle cancellerie occidentali dire che Putin vive in un’altra epoca. Significativo che dopo la deposizione di Yanukovich l’ambasciatore americano in Ucraina abbia detto che «questo è un giorno da segnare sui libri di storia».

Kennan vedeva chiaramente le conseguenze del movimento occidentale verso est, e il Cremlino le dichiarava in modo esplicito. Perché a un certo punto non si sono fermati?
Io credo che non fossero in grado di concepire un’altra prospettiva, e anche oggi è così. Se parli con Michael McFaul, l’ex ambasciatore americano a Mosca, ti dice che ha spiegato in tutti i modi al Cremlino che l’America non ha nessuna intenzione aggressiva, e che la presenza occidentale sul confine ha come unico scopo la promozione della democrazia liberale, dei diritti, della prosperità. Ci crede davvero, non è una scusa o una copertura per chissà quale progetto segreto di dominazione. Questo in un certo senso è il problema, perché una tale convinzione impedisce di capire che l’interlocutore ragiona secondo un altro schema, e allora non resta che rappresentarlo come un mostro, un detrito della storia. Un conto è criticare le politiche di Putin, cosa che si può certamente fare, anche duramente, un altro è rifiutarsi di capire la sua logica.

Anche la guerra in Georgia nel 2008 è scoppiata per gli stessi motivi?
La guerra in Georgia è stata esclusivamente una reazione all’aggressività con cui la Nato ha promosso l’ingresso di un paese storicamente nell’orbita geopolitica della Russia. Non c’è un altro vero motivo. Di quella vicenda è interessante notare la sovrapposizione ideologica fra liberal e neoconservatori sullo schema generale delle relazioni internazionali.

In questo consenso liberal, che fine hanno fatto i realisti?
In America sono scomparsi quasi del tutto, almeno dai circoli del governo. Una posizione realista in questo caso avrebbe suggerito di evitare in tutti i modi il conflitto, anche a costo di tenere in piedi un governo impopolare. Tutti i realisti che conosco erano contro la guerra in Vietnam, tranne Kissinger. E tutti erano contro la guerra in Iraq, tranne Kissinger. Ora, non voglio prendermela con Kissinger, soltanto che la battaglia delle teorie geopolitiche è stata chiaramente vinta da una parte.

Il segretario di stato John Kerry ha detto che «l’era della dottrina Monroe è finita». È d’accordo?
Kerry ha fatto un’affermazione sciocca, coerente con la sua tendenza a dire cose senza senso. La dottrina Monroe è più viva che mai. Cosa pensa che succederebbe se un’alleanza militare capeggiata dalla Cina decidesse di installare una base in Messico? Ovviamente sarebbe giudicato un atto di aggressione, l’America reagirebbe anche più duramente di come la Russia sta facendo in Ucraina.

Perché l’America allora non accetta che la Russia applichi un principio simile?
L’ipocrisia è una qualità che distingue le grandi potenze, e lo dico da realista. Ma a volte l’ipocrisia può essere controproducente.

Esiste una soluzione praticabile per l’Ucraina a questo punto?
Purtroppo l’escalation del conflitto militare ha fatto sfumare l’occasione di fare dell’Ucraina uno stato neutrale, sul modello della Finlandia dopo la Seconda Guerra mondiale. Sarebbe stato un passo credibile, avrebbe risparmiato sofferenze e credo sarebbe stato nell’interesse dell’America, dell’Unione Europea e della gente che è scesa in piazza contro Mosca. In uno stato neutrale l’Occidente avrebbe avuto molti più strumenti di persuasione per propiziare l’apertura economica e la crescita di istituzioni democratiche più solide. Il conflitto è la soluzione peggiore per gli ucraini europeisti e per l’America, questo è il paradosso di una guerra nata come conseguenza dell’espansione occidentale in Russia.

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