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Suicidio assistito. La sentenza della Consulta e il compito dei giudici cattolici

È una buona sentenza quella sul suicidio assistito? La Consulta era tenuta a pronunciarsi così? E i giudici cattolici? Domande di un lettore, risposta di Alfredo Mantovano

Paco Minelli - Alfredo Mantovano
03/12/2019 - 3:00
Interni
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Il Palazzo della Consulta sede della Corte Costituzionale a Roma

Caro direttore, so che Tempi si è già occupato nei giorni scorsi della sentenza della Corte costituzionale sul suicidio assistito. Ho letto l’analisi di Aldo Vitale, la nota del Centro studi Livatino, il comunicato di Medicina e Persona ospitati nel vostro sito. 

Tuttavia mi permetto di chiedervi un ulteriore sforzo di riflessione, perché il giudizio sulla sentenza e sulle sue implicazioni e conseguenze non solo sociali, ma anche personali, è tutt’altro che unanime o “pacifica”: non lo è nemmeno in ambito cattolico (che è il mio ambito). Sapeste che discussioni perfino con gli amici più stretti… Non che mi aspetti che sia Tempi a mettere d’accordo tutti, ma sono sicuro che avete persone di incontestabile autorevolezza a cui chiedere consiglio e ragioni.

Io ho alcune obiezioni radicali riguardo al pronunciamento della Consulta, che mi si sono chiarite anche grazie alla notevolissima lezione di Alfredo Mantovano sul fine vita, pronunciata all’incontro di Esserci alla vigilia della stesso. Sono però un po’ in crisi, come si usa dire, in particolare rispetto a due aspetti di fondo, quelli che vi sottopongo di seguito, chiedendo scusa anticipatamente se sbaglierò i termini tecnici.

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1. Posto che la Corte costituzionale era tenuta a pronunciarsi in qualche modo, era forse “obbligata” a intervenire nei modi in cui ha ritenuto di farlo? Sento ripetere: tutto sommato è una buona sentenza, perché almeno ha rinchiuso il suicidio assistito entro solidi paletti. In realtà sappiamo tutti che quei paletti saranno presto divelti (come è successo in qualunque paese che abbia deciso di legiferare sul tema), figurarsi se non lo sanno i giudici costituzionali. Si dice che questi ultimi sono chiamati a “vivificare” la Carta secondo il costume della società che evolve. A me sembra invece che in questo caso si siano lasciati cadere in una trappola studiata appositamente da quei furbetti dei radicali per sconvolgerlo, il costume italiano, per il quale il fine vita è materia di rapporto tra medico e paziente più che di diritti codificati. C’erano alternative, oltre allo scenario in cui Marco Cappato sarebbe stato condannato e quindi reso “martire” della sua causa?

2. Nella Corte costituzionale non mancano i giudici cattolici. Ed è probabile che si debbano a loro – così si dice – alcuni punti positivi della sentenza, per esempio l’inclusione del diritto all’obiezione di coscienza per i medici, oltre ai paletti di cui sopra. La questione di sottofondo, non slegata dalla precedente, però è: ammesso e non concesso che una sentenza andava scritta “per forza”, che cosa è chiamato a fare un giudice cattolico in un caso come questo, in cui sono coinvolti i famosi princìpi non negoziabili? Deve scendere a compromessi nella speranza di limitare i danni (male minore)? Quali altre opzioni ragionevoli avevano i cattolici della Consulta? Il soggetto della domanda sono loro soltanto formalmente, mentre la risposta credo che riguardi personalmente tutti noi cattolici, visto che si tratta della testimonianza, anche pubblica, che siamo chiamati a dare ogni giorno nel nostro ambiente.

Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
Paco Minelli, Ferrara

***

Gentile Minelli, come dice lei, abbiamo «persone», ma preferiamo chiamarli amici, «di incontestabile autorevolezza a cui chiedere consiglio e ragioni» sui temi da lei posti. Abbiamo girato la sua lettera ad Alfredo Mantovano, che ringraziamo di cuore per aver accettato di rispondere, sobbarcandosi uno sforzo non indifferente. Ecco che cosa ha scritto.

***

Caro Direttore, ti ringrazio per la stima. I quesiti che il lettore pone sono tanto importanti quanto impegnativi.

1. Parto dal primo: la Corte costituzionale non aveva alcun obbligo di pronunciarsi nel modo scelto. Come tutti sappiamo, quando una norma di legge viene sottoposta al suo esame, l’esito è:
– l’inammissibilità se la questione sollevata non è stata correttamente impostata dal giudice (per esempio, la norma impugnata non ha rilievo nel giudizio ordinario);
– il rigetto, se essa viene valutata conforme alla Costituzione;
– l’accoglimento, se l’eccezione è ritenuta fondata, con conseguente declaratoria di illegittimità;
– l’interpretativa di rigetto, se la norma è ritenuta legittima a condizione che sia interpretata in modo diverso da quanto fatto dal giudice che ha rimesso la questione alla Corte.

Nella vicenda di cui parliamo ben avrebbe potuto la Consulta fermarsi a una pronuncia di inammissibilità: dal testo della sentenza 242/2019, e prima ancora dell’ordinanza 207/2018, si evince che a Fabiano Antoniani era stata prospettata una sedazione, anche profonda, che egli ha rifiutato perché la morte non sarebbe stata rapida; con la sedazione profonda egli avrebbe fortemente ridotto le proprie terribili sofferenze, e la morte sarebbe comunque seguita, se pure non nell’immediatezza. L’eccezione di illegittimità dell’articolo 580 del codice penale si mostrava pertanto manifestamente infondata.

Nel merito della questione sollevata, le ragioni quanto meno per una decisione di rigetto sono esposte nella prima parte dell’ordinanza 207 e della sentenza 242, allorché la Consulta richiama l’opportunità che l’aiuto al suicidio continui a essere penalmente sanzionato. Così si legge al paragrafo 6 dell’ordinanza:

«L’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio (…) è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere».

Si aggiunge che

«il divieto in parola conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto».

2. Detto questo, però, la stessa Consulta non ne trae motivo per disattendere l’eccezione, ma al contrario elenca le condizioni per non applicare l’articolo 580 del codice penale: esse coincidono proprio con quei profili di particolare debolezza e vulnerabilità – il tipo di patologia, il livello del dolore e i sostegni vitali in atto – che in precedenza la Corte ha evocato per giustificare l’esistenza dell’articolo impugnato. La contraddizione sta nell’evocare l’autodeterminazione «nel congedarsi dalla vita» per un paziente la cui libertà di autodeterminazione è però compromessa dalla situazione nella quale versa. Le alternative, dunque, per chiudere sul punto, c’erano.

Quanto alla storia dei “paletti”, certamente va valorizzata l’assenza di obbligo per il medico di praticare trattamenti eutanasici, ma vanno ricordati i precedenti – pensiamo per tutti all’aborto – in cui sentenze (Corte costituzionale 27/75) e leggi (194/78) furono varate col dichiarato intento di risolvere pochi casi concreti, circondati da cautele, e poi sappiamo come è finita.

Da rilevare, per concludere, non solo che la Consulta non era tenuta a pronunciarsi secondo l’opzione scelta, ma che per giungervi essa ha realizzato una forzatura non di poco conto: sostituendosi al Parlamento, essa si è fatta non mero censore, ma autore di norme, ha riscritto per intero la seconda parte dell’articolo 580 del codice penale, andando oltre il ruolo assegnatole dalla Costituzione, che è quello di verificare se la norma impugnata sia o non sia legittima.

3. Il secondo quesito esige una risposta più articolata. Sgombriamo il terreno da equivoci sulla religione: il Magistero della Chiesa ricorda che quando si parla dei fondamenti dell’antropologia, il dato confessionale – se pure importante – cede il passo al dato di realtà, in quanto tale constatabile da chiunque, qualunque sia il suo credo, e anche se non ha alcun credo.

Il giudizio italiano di costituzionalità ha più d’un limite. Manca un contraddittorio effettivo: a sostenere la costituzionalità della norma impugnata vi è stata solo l’Avvocatura dello Stato, che in questo caso – come spesso accade quando sono in discussione temi eticamente sensibili – ha svolto una difesa flebile. Come Centro studi Livatino avevamo presentato un atto di intervento nel giudizio, che alla prima udienza è stato però dichiarato inammissibile. Così però la dialettica processuale ha visto schierati da un lato gli avvocati dell’onorevole Marco Cappato, e dall’altro nella sostanza nessuno.

Limite ancora più rilevante, per la questione posta dal lettore, è la mancata previsione, per il giudice che va in minoranza, di esplicitare la cosiddetta dissenting opinion: essa esiste in consessi analoghi, per esempio nella Corte suprema degli Stati Uniti. Gli ordinamenti che la prevedono consentono ai componenti del collegio che non condividano la decisione che prevale di manifestare il dissenso e di spiegarne le ragioni. Sarebbe importante avviare un dibattito, sentendo in primis gli stessi giudici costituzionali, sulla opportunità di modificare il giudizio di costituzionalità superando i limiti segnalati: il che deve avvenire per legge, e finora – a dire il vero – non è stato proposto da nessuno, né in Parlamento né dall’interno della Consulta.

La possibilità di esprimere il dissenso esiste nei giudizi ordinari: quando il giudice andato in minoranza tiene a rendere conoscibile la sua non condivisione della decisione, redige il dissenso in un verbale e lo ripone in una busta riservata, che viene aperta se per quel provvedimento viene evocata la responsabilità civile, e soltanto a quel fine.

4. Il lettore però chiede una risposta per quanto accaduto proprio con la sentenza 242. Qui la questione diventa veramente complessa: sono intimamente convinto che i “giudici cattolici” non abbiano condiviso l’orientamento che è prevalso. I testi dell’ordinanza 207 e della sentenza 242 fanno presumere che la discussione sia stata non facile né unanime, come attestano i numerosi passaggi contraddittori, evidente riflesso del tentativo di sintesi di posizioni contrapposte, e i tempi di redazione delle motivazioni di entrambi i provvedimenti.

Se, preso atto di trovarsi in minoranza, i “giudici cattolici” hanno proposto degli emendamenti che hanno portato ai cosiddetti “paletti”, la loro decisione potrà essere valutata come moralmente lecita. Poiché però un sistema che non prevede la dissenting opinion e per il quale vige il segreto della camera di consiglio rende impossibile comprendere come si sia formata la decisione, nessuno potrà mai sapere come sono andate le cose, e quindi ogni speculazione sul punto è vana.

Quel che però mi auguro è che un “giudice cattolico”, contrario all’eutanasia, commentando la sentenza anche soltanto con amici non sostenga che la decisione è diventata buona grazie a quei “paletti”: come si è visto, buona essa non è.

5. Lo ribadisco: è doveroso porsi la questione per l’immediato futuro, a causa del moltiplicarsi di nodi controversi con forti implicazioni etiche e antropologiche. Più di trent’anni fa la Corte costituzionale fu investita della questione della mancata previsione nella legge sull’aborto dell’obiezione di coscienza per il giudice tutelare, chiamato ad autorizzare l’interruzione volontaria di gravidanza alla minore che non intenda coinvolgere i genitori. Una questione non semplice, perché la funzione del giudice è quella di applicare la legge, sì che il contrasto non è solo di coscienza ma investe il profilo funzionale: non fu accolta perché – così spiegò la Consulta – il giudice avrebbe potuto contare su una organizzazione dell’ufficio tale da non metterlo di fronte a quello che per la sua coscienza costituiva un dilemma insuperabile.

Il momento attuale segnala l’insufficienza del ricorso a semplici moduli organizzativi, e la necessità di affrontare il nodo di questioni che, in quanto incidono sull’essenza dell’uomo, per ogni giudice hanno tratti dilanianti.

Alfredo Mantovano

Foto Ansa

Tags: AbortoAlfredo Mantovanocentro studi livatinocorte costituzionaledj faboEutanasiafabiano antonianifine vitaMarco Cappatoobiezione di coscienzasuicidio assistito
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