«Non mi sento né un eroe né un vescovo antimafia, ma una persona normale che cerca di fare il suo dovere di pastore andando avanti al suo popolo al quale propone la santità nella vita ordinaria come vero antidoto alla mafia». Michele Pennisi, oggi arcivescovo di Monreale e fino a un anno fa vescovo di Piazza Armerina, fuori dalla Sicilia è noto soprattutto come uno degli uomini di Chiesa siciliani che hanno subìto minacce di morte per avere detto “no” alle cosche mafiose (nel suo caso si trattò del rifiuto alla celebrazione in cattedrale del funerale di un boss). Ma nell’isola è conosciuto anche come uno dei vescovi più attivi sul fronte del problema rappresentato dagli sbarchi di immigrati. Al Meeting di Rimini parteciperà all’incontro dal titolo “L’immigrazione e il bisogno dell’altro: Italia, Europa, mondo”.
Eccellenza, il genitivo del titolo è ambivalente. Può alludere ai bisogni che hanno i migranti, ma può anche rappresentare un’affermazione provocatoria: cioè che noi abbiamo bisogno di loro. Oggi però, in Italia e in Europa, molti pensano e a volte dicono: «Non abbiamo bisogno di tutta questa gente e non siamo in grado di rispondere ai loro bisogni». Lei cosa pensa?
Effettivamente il problema dell’altro si può intendere in una duplice dimensione: l’altro visto come uno straniero – ma io preferisco dire un essere umano – da accogliere, ma anche l’altro inteso come colui di cui noi abbiamo bisogno per imparare ad accogliere e che può contribuire ad arricchirci non solo economicamente ma culturalmente. Quello che comunque dobbiamo capire, è che non si tratta più di un fenomeno straordinario e temporaneo, ma di un fatto che riguarda la quotidianità. In base alle notizie che abbiamo, ci sono circa tre milioni di africani e siriani che aspettano di trasferirsi in Europa. Dunque si tratta di un grande fenomeno con cui dobbiamo fare i conti come cristiani, come Chiesa, ma devono farseli anche il governo italiano, l’Unione Europea e la comunità internazionale. Per tutti deve risuonare l’appello di papa Francesco a Lampedusa: «Caino dov’è tuo fratello?». Non è un problema che si può pensare di risolvere con delle misure emergenziali. Ci vuole una sorta di nuovo Piano Marshall per cercare di risolvere all’origine questo problema, nel modo più rispettoso della dignità delle persone e della loro identità religiosa e culturale.
Nella sua lettera alla diocesi di Monreale in occasione della Giornata mondiale delle migrazioni lei ha scritto che il movimento dei migranti è una «provvida occasione per la diffusione del Regno di Dio». Cosa intende dire?
Anzitutto attraverso l’accoglienza di questi profughi noi accogliamo Cristo, che ha detto: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Se riconosciamo nello straniero la persona di Cristo egli ci accoglierà nel suo Regno. Abbiamo poi l’occasione, attraverso la testimonianza della carità ma anche attraverso l’annuncio del Vangelo a questi fratelli, di realizzare qui quella missione “ad gentes” che è stata compiuta e che si continua a compiere nei paesi di missione. Perciò da una parte noi accogliendo questi fratelli accogliamo Cristo nel povero, nell’immigrato, nel carcerato. D’altra parte questi fratelli che accogliamo a partire dalla carità cristiana possono apprezzare il Vangelo. Bisogna però anche dire che molti di questi immigrati sono cristiani. Si immagina che siano tutti musulmani, ma quando tempo fa abbiamo accolto a Gela un numeroso gruppo di loro, reduci da un naufragio nel quale alcuni erano morti, abbiamo scoperto che molti venivano dall’Eritrea ed erano cristiani copti. Il numero maggiore dei profughi arrivati quest’anno, 13 mila, è costituito da eritrei. Sono cristiani anche molti nigeriani. Tutti essi vorrebbero vedere in noi cristiani d’Occidente testimoniata la carità di Cristo e una fede più ardente.
Sì, e con molta concretezza. Nella mia diocesi, a Partinico, in una struttura di una parrocchia che è stata affidata alla comunità di don Vincenzo Sorce, Casa famiglia Rosetta, sono ospitate donne e bambini di famiglie immigrate. Le parrocchie, le associazioni e i movimenti si sono mobilitati per aiutare queste persone a trascorrere in modo proficuo il tempo libero. Un gruppo di insegnanti in pensione si è offerto per insegnare loro l’italiano. Altri hanno portato vestiti. Nel comune di Montelepre sono stati ospitati in una struttura non ecclesiale dei migranti. Però questi hanno chiamato subito il parroco per chiedere un aiuto. E il parroco si è attivato immediatamente attraverso la Caritas per mettere a disposizione di queste persone vestiti, scarpe e generi alimentari. Certo, da parte di alcuni c’è un po’ di resistenza, c’è la paura che queste persone possano creare disordini. Però quando le si accoglie ci si accorge che la paura cessa. Dobbiamo ricordare poi che molti italiani emigrati all’estero hanno fatto l’esperienza che oggi stanno facendo i profughi provenienti dall’Africa.
Si discute e si polemizza molto attorno all’operazione Mare Nostrum, sui pro e sui contro. Lei cosa pensa?
L’operazione Mare Nostrum ha cercato di affrontare un’emergenza, e in questo senso merita approvazione. Però ha dei limiti. Qualcuno sostiene che questa modalità d’intervento incoraggi altri profughi ad attraversare il mare a rischio della vita, con le conseguenze tragiche che si sono viste pochi giorni fa. Anche il fatto che le operazioni debbano pesare tutte sul bilancio della Difesa è discutibile. Mi permetto di fare una proposta provocatoria: tutti gli Stati europei, e soprattutto quelli che hanno creato questa situazione di insicurezza in Libia a seguito del loro intervento militare, e faccio per tutti il nome della Francia, partecipino a operazioni di salvataggio in mare non solo con navi militari ma anche con mezzi di trasporto civili. Poi si cerchi di fare un accordo con la Libia per selezionare le persone che hanno diritto all’asilo quando ancora sono sul territorio libico. In questo modo chi ne ha diritto potrebbe da subito partire per Marsiglia, per Amsterdam, per Amburgo, senza prima passare per i porti siciliani e i centri di accoglienza italiani, o essere trasferito con ponti aerei nei paesi dove vuole recarsi per ricongiungersi con i parenti. Infatti la maggior parte delle persone sbarca qua in Italia, quasi sempre in Sicilia, ma poi vogliono andare in Germania, in Francia, addirittura in Canada. A causa della lentezza delle procedure di identificazione e di vaglio delle richieste, succede che o scappano, o restano in uno stato di sospensione. I tempi per ottenere il riconoscimento sono lunghissimi. Con situazioni assurde. Per esempio quelli che sono nei centri della provincia di Enna, nel centro della Sicilia, hanno la commissione a Trapani, e ci vogliono tre ore di auto per arrivarci. Il problema dell’immigrazione è internazionale e va trattato a tale livello. Certo, là dove c’è la guerra la gente deve poter fuggire, però molti scappano per la povertà. Allora c’è bisogno di forti investimenti in quei paesi, come sta facendo ora la Cina in Africa. L’Europa e i paesi dell’Occidente in generale dovrebbero prendere esempio. Invece con le attuali convenzioni europee tutto viene demandato all’Italia perché è il paese dove i migranti sbarcano, e la Sicilia è il territorio che subisce l’impatto più forte, perché sbarcano tutti qui e i prefetti, i militari e gli operatori della protezione civile devono arrabattarsi per cercare le soluzioni all’emergenza. Questo deve cambiare.