Imane Fadil. Per i pm «all’80 per cento è morte naturale», i giornali non lo scrivono
Hannah Arendt definiva l’ideologia come «logica di un’idea». Ne Le origini del totalitarismo scriveva in modo magistrale: l’ideologia ritiene che «una sola idea basti a spiegare ogni cosa nello svolgimento della premessa, e che nessuna esperienza possa insegnare alcunché dato che tutto è compreso in questo processo coerente di deduzione logica». Non c’è esempio migliore del caso di Imane Fadil.
L’INTERPRETAZIONE UNIVOCA DEI GIORNALI
Da sabato i giornali interpretano la sua morte tragica e misteriosa in modo univoco: si tratta di omicidio volontario per avvelenamento. Chi poteva avere interesse a uccidere la giovane modella di origine marocchina, coinvolta nelle cene eleganti di Arcore e nei processi in cui è implicato Silvio Berlusconi? Ovvio, l’ex premier. Ed è da cinque giorni che Corriere e Stampa, ma soprattutto Repubblica e Fatto Quotidiano, veicolano l’ipotesi che il mandante dell’assassinio sia proprio Berlusconi o qualcuno che voleva fargli un favore. Alcuni editorialisti e cronisti l’hanno ventilato in modo velato e intelligente, altri in modo esplicito e grottesco.
QUEI “PICCOLI” DETTAGLI CHE NON TORNANO
Nell’avanzare questa teoria i nostri quotidiani non tengono conto di alcuni fatti. Innanzitutto, la morte di Fadil danneggia il Cavaliere, come dichiarato all’Ansa dal suo legale nel processo Ruby Ter, Federico Cecconi: «Dal punto di vista tecnico-processuale la sua morte nuoce alla difesa di Berlusconi perché le sue dichiarazioni entrano nel processo direttamente e così noi non possiamo procedere con il controesame».
In secondo luogo, i principali esperti italiani di tossicologia e medicina nucleare hanno a più riprese dichiarato che le sostanze rilevate nel sangue di Fadil (cromo, molibdeno, cadmio e antimonio) non sono presenti in un dosaggio tale da essere letali: «Non esiste la possibilità che le dosi di Imane Fadil siano letali, le concentrazioni sono troppo basse e rientrano nella media della popolazione. Gli operai di determinate fonderie hanno livelli decine di volte superiori, e senza malattie» (Carlo Lodovico Galli). E ancora: «Non c’è un solo indizio che mi faccia pensare che sia stata uccisa dalle radiazioni» (Roberto Moccaldi).
«ALL’80 PER CENTO È MORTE NATURALE»
Senza aspettare analisi, biopsia e accertamenti i giornali hanno insistito nell’avanzare la loro ipotesi con titoli come questo: Svelò il buna bunga, muore avvelenata (Repubblica), riprendendo tutte le dichiarazioni dei pm che si stanno occupando del caso e che denunciavano «dosi abnormi» di sostanze pericolose nel sangue di Fadil.
Due giorni fa però il pm Tiziana Siciliano ha iniziato a cambiare leggermente il tiro, affermando che, anche si trattasse di morte naturale, «per noi avrebbe la stessa dignità». E ieri ha detto: «Per noi all’80 per cento si tratta di morte naturale». Nessun omicidio, dunque, niente avvelenamento, niente radiazioni, niente spy story e niente Berlusconi.
I GIORNALI SI DIMENTICANO DI DARE LA NOTIZIA
Si tratta ancora di ipotesi ma da quegli stessi giornali che da cinque giorni sostengono la tesi opposta a caratteri cubitali ci si sarebbe aspettati, magari non una rettifica, ma almeno una doverosa citazione. E invece il caso Fadil oggi scompare curiosamente dalle prime pagine: Repubblica, per la prima volta da sabato, non dedica neanche un articolo alla donna e di conseguenza non riferisce la nuova ipotesi della procura; Il Fatto Quotidiano si limita a una breve a pagina 17, senza parlare della tesi del pm; il Corriere a pagina 25 intervista l’avvocato di Fadil e omette le parole del pm in un pezzetto di cronaca. La Stampa semplicemente se ne frega.
«POI SI LAMENTANO PERCHÉ PERDONO COPIE»
È un caso di amnesia collettiva? Forse sì. Oppure ha ragione Frank Cimini, che oggi scrive al Foglio: «Ho sentito con le mie orecchie» le parole del pm Siciliano. «Queste parole non le trovate su nessun giornale, in nessun sito, in nessun tg. Ai media piace da morire tenere in piedi la tesi dell’omicidio e spesso indicano anche il mandante. Poi si lamentano perché perdono sempre più copie». Hannah Arendt nel 1948 aveva già capito tutto.
Foto Ansa
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