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Il regime comunista non ha «dichiarato guerra ai gay». Ma a tutti i cinesi

L'Università di Shanghai scheda le persone Lgbt per controllarle. I giornali si scandalizzano, ma è ciò che avviene da decenni con tutti gli altri gruppi: dai cristiani al Falun Gong, fino ai maoisti

Leone Grotti
31/08/2021 - 3:00
Esteri
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Sostenitori del movimento Lgbt in Cina

«Cina, shock all’Università: “Schedate gli iscritti Lgbt”». È il titolo scandalizzato con cui ieri la Stampa ha dato conto in prima pagina di una notizia riportata domenica dal Guardian. L’Università di Shanghai, come certifica un documento ufficiale di gennaio, ha deciso di schedare gli studenti Lgbt con l’obiettivo di saperne di più su di loro: posizioni politiche, condizioni psicologiche, legami sociali.

La Cina «dichiara guerra ai gay»?

Tutto ciò che riguarda le comunità Lgbt di tutto il mondo fa notizia in Europa e la Cina, sulle cui pratiche repressive i giornali occidentali sorvolano spesso, non fa eccezione. Così il quotidiano torinese tuona che «l’università dichiara guerra ai gay» in Cina, ma la realtà è leggermente diversa.

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Da quando è stato fondato nel 1921, il Partito comunista cinese ha sempre dedicato un’attenzione maniacale al controllo dei cittadini. La sicurezza e il mantenimento del potere sono l’ossessione del regime fin da quando ha assunto le redini del paese nel 1949 e la stabilità sociale è, da sempre, il primo obiettivo da salvaguardare per la gerarchia.

Tutto ciò che rischia anche solo remotamente di mettere in pericolo la stabilità del regime deve essere combattuto, arginato, controllato, soffocato. Ogni forma di attivismo, qualunque esso sia, è guardata con sospetto dagli eredi degli imperatori e nessuno può pensare di sfuggire alle maglie del «socialismo con caratteristiche cinesi».

Dal Falun Gong agli ambientalisti

È per questo che la Cina sotto Mao Zedong ha condotto innumerevoli campagne politiche, una dopo l’altra, contro nemici reali o immaginari. È per questo che è stato dichiarato fuorilegge la pratica spirituale del Falun Gong. È per questo che migliaia di giovani sono stati massacrati in Piazza Tienanmen. È per questo che vengono perseguitati avvocati difensori dei diritti umani, sindacalisti e ambientalisti. È per questo che recentemente a Hong Kong è stato inaugurato il “test di patriottismo” per chiunque voglia candidarsi alle elezioni o è stato proposto di installare telecamere a circuito chiuso in tutte le scuole della città per controllare che cosa dicono a lezione gli insegnanti. È per questo che è vietato pubblicare sui social foto di Winnie the Pooh, considerato troppo simile nella fisionomia al presidente Xi Jinping.

Le persone Lgbt non sono certo le prime, e non saranno le ultime, a essere schedate. Nella provincia dell’Henan gli alunni cristiani vengano schedati e ai loro genitori si vieta di educare i figli alla religione; nella provincia del Xinjiang gli uiguri vengono schedati e una barba fatta crescere troppo è già sintomo di inaccettabile estremismo; nel Tibet i monaci buddisti (e non solo) vengono schedati e possedere una foto del Dalai Lama può costare anni di carcere e rieducazione politica; a Hong Kong giornalisti, insegnanti, studenti e attivisti vengono schedati: perfino comprare i giornali democratici in edicola è considerato un gesto controrivoluzionario.

Il regime sospetta anche dei comunisti

Ogni iniziativa individuale o appartenenza a un gruppo sociale è vista con sospetto in Cina. Il fatto che sia realmente pericolosa o meno per la stabilità del regime non ha alcuna importanza: è il Partito che decide che cosa beneficia il «socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era» e cosa no. Da questo punto di vista, non è affatto strano o “scioccante” che il regime abbia ordinato di censire gli appartenenti al movimento Lgbt. Si potrebbe quasi parlare di ordinaria amministrazione.

Bo Xilai era un influente e carismatico membro del Politburo, divenuto famoso in Cina per la sua efficace lotta alla corruzione e per le sue campagne rosse in cui proponeva un ritorno al maoismo delle origini. Nel 2013 è stato condannato all’ergastolo perché troppo comunista (e quindi potenzialmente pericoloso per le autorità allora in carica, in primis il futuro presidente Xi Jinping). Bo Xilai non è stato fatto fuori perché il regime non ami il comunismo o il maoismo, ma perché nessuno può mettere in discussione il potere costituito e chi lo amministra.

Per il movimento Lgbt vale lo stesso. Non è il loro orientamento sessuale a costituire innanzitutto un problema per il regime, bensì la loro appartenenza a qualcosa di diverso dalle istituzioni costituite dal Partito. Vale per i gay, come per tutti gli altri. Sarebbe ora che la stampa europea, invece di reagire come il cane di Pavlov solo e soltanto ad ogni notizia riguardante la comunità Lgbt, si rendesse conto che il quadro è più ampio.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

Tags: bo xilaiCinaCristiani Perseguitatifalun gonggaylgbtmao zedongpartito comunista cinesexi jinping
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