Dio ci scampi dalla spiritualità (e dal salutismo). Intervista a Fabrice Hadjadj
Articolo tratto dal numero di luglio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Nelle settimane del confinamento Fabrice Hadjadj, saggista con una trentina di premiatissimi titoli all’attivo e direttore dell’Istituto Anthropos di Friburgo, ha tenuto una serie di video lezioni sul tema della pandemia da Covid-19 che si trovano su YouTube sotto la sigla Fab Lab. Gli abbiamo chiesto di approfondire alcuni dei punti che ha toccato e delle affermazioni che ha fatto.
Nella sua serie di video lezioni di riflessioni storico-filosofico-religiose sull’epidemia da Covid-19 che si trova su YouTube lei fa un parallelo fra contagio virale e contagio sacramentale: nei sacramenti la grazia si trasmette per contatto o nella prossimità, esattamente come la peste. Che cosa dovremmo imparare da questa analogia?
In ebraico parole identiche quanto alle consonanti si trasformano in parole di significato diverso quando si aggiungono delle vocali (in ebraico, come in arabo, si scrivono solo le consonanti delle parole, mentre le vocali sono introdotte dal lettore in base al contesto, ndt). Per esempio la parola scritta DBR dà due parole differenti quando la si vocalizza: dabar, la parola, e deber, la peste. Si dà il caso che la Bibbia ebraica sia scritta in modo esclusivamente consonantico, e che solo il contesto indichi il modo migliore di leggerla. Il lettore di questa Bibbia ha costantemente sotto gli occhi un’ambiguità: bisogna leggere “peste”? Bisogna leggere “parola”? Tocca a lui sciogliere l’ambiguità per le nostre orecchie. Come è detto nel libro dei Proverbi, «vita e morte sono in potere della lingua» (18,21). Tutti i doni comportano un dramma, perché di questi doni possiamo fare un uso buono o cattivo. La Pasqua diventa peste per colui che, liberato dalle sue catene, ne approfitta per diventare un nuovo faraone. Lo stesso vale per l’Eucarestia. Il suo effetto dipende dalla mia disposizione: «Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11,29). Questo è il primo punto, che si oppone radicalmente alla mentalità tecnocratica. La mentalità tecnocratica crede a procedure che funzionano automaticamente. I suoi antidolorifici devono sopprimere il male automaticamente. Ma l’ostia non è una pastiglia di aspirina. Con essa, come con ogni grazia, si può diventare sia migliori che peggiori. Con la venuta del Cristo, si può vivere con Dio o ucciderlo (e più in generale vivere con lui dopo averlo ucciso), cosa che non era possibile prima.
Il secondo punto, non meno essenziale, è quello del carattere carnale della religione cristiana. Per ricevere pienamente la grazia, conformemente a ciò che vuole il Cristo, occorre una prossimità fisica con un prete e anche con altri fedeli, cioè con delle persone concrete, molto spesso antipatiche, e dunque eccellenti per mettere alla prova la nostra carità. Se la grazia non si trasmette mai meglio che con segni sensibili, in un contatto carnale, allora anche i microbi possono trasmettersi con essa, e soggetti perversi possono approfittarsene per commettere degli abusi – il che ci riporta al numero 1, all’uso dei doni meravigliosi che ci sono fatti. Sempre il cristianesimo ci strappa allo spiritualismo. Direi addirittura che ci salva dalla “spiritualità”, questo termine pigliatutto, dove ciascuno cerca di evadere dalla sua condizione terrestre e dalla sua responsabilità verso il prossimo.
Il contagio sacramentale è stato sospeso per impedire il contagio virale: che cosa pensa di questa decisione, che è stata l’origine di non pochi dibattiti e polemiche?
È facile dare lezioni di strategia dopo la battaglia. Non mi ci proverò. Penso ai personaggi di Alessandro Manzoni. È una cosa stupefacente che la letteratura italiana in prosa si fondi su due capolavori, il Decamerone e I promessi sposi, che reinventano entrambi la lingua italiana parlando della peste. Nessun altro popolo dispone per la sua lingua di un tale rapporto con le epidemie, tranne i greci forse, con la peste che devasta il campo degli achei all’inizio dell’Iliade, quella che devasta Tebe all’inizio dell’Edipo re, e quella che devasta Atene nel secondo libro de La guerra del Peloponneso. Negli italiani, specialmente quelli del Nord, la pandemia ha riattivato una memoria profonda, diversamente dagli altri europei. Tornando ai personaggi di Manzoni, dovremmo chiederci: nella nostra gestione del dramma siamo stati dei Federico Borromeo o dei don Abbondio? La nostra prudenza è stata giusta o sconfinava nella freddezza? Ricordatevi il capitolo XXXII. Il cardinale arcivescovo di Milano rifiuta di fare una processione con le reliquie di san Carlo Borromeo, perché teme che l’affluenza della folla, anziché scongiurare la peste grazie alle preghiere, moltiplicherà i contagi a causa della promiscuità. Tuttavia subisce una tale pressione che finisce per acconsentire, ed ecco che effettivamente questa processione diventa un focolaio a partire dal quale la peste si diffonde ai quattro angoli della città. Conveniva dunque sospendere certe pratiche e ordinare la quarantena. Ma, d’altra parte, lo stesso Federico, esempio di saggezza pratica secondo Manzoni, raccomanda ai suoi preti di non abbandonare il gregge e di non preferire la salute alla salvezza. Scrive loro: «Siate disposti ad abbandonare questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo». E Manzoni commenta dicendo di Federico Borromeo stesso che «non trascurò quelle cautele che non gl’impedissero di fare il suo dovere (…); e insieme non curò il pericolo, né parve che se n’avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello». In questo che è uno dei testi fondatori dell’italianità c’è tutto: la cura di conservare la propria vita, ma anche l’esigenza di esporla, quando si tratta di manifestare ciò che c’è di più vivente.
Il culto cattolico ha bisogno di una prossimità fisica. Di cosa è stata segno la Pasqua senza partecipazione di popolo all’Eucarestia che abbiamo vissuto?
È difficile dirlo in maniera univoca, perché il confinamento ha rimandato ciascuno alla sua situazione particolare. È precisamente questo il guaio dell’assenza del riunirsi in chiesa: le diseguaglianze si rafforzano, il povero non si trova più nello stesso luogo insieme al ricco, il devoto non si trova più seduto di fianco a quello che va lì per abitudine o per caso. Col confinamento, alcuni, grazie al fatto che la loro situazione glielo permetteva, hanno riscoperto la preghiera familiare; altri, attraverso internet, si sono concentrati sulle Messe del Papa; altri si sono rivolti piuttosto al culto di Netflix; degli anziani sono morti in solitudine, delle coppie sono entrate in crisi a causa dell’eccessiva vicinanza, eccetera. Per quel che mi riguarda, il mio è stato il tempo di un’eccezione di cui un po’ mi vergogno, perché posso attribuirla tanto alla Provvidenza di Dio che ai miei privilegi di notabile cattolico: stavamo insieme ai nostri figli e a una ragazza alla pari – cioè eravamo dieci persone – e un amico sacerdote veniva a celebrare la Messa la domenica a casa nostra. Abbiamo fatto l’esperienza della “piccola Chiesa” ma, anche se questa situazione ci andava bene (non arrivavamo più in ritardo alla Messa!), anche se tutto era più piacevole e più pratico, vivevamo obiettivamente una privazione, perché non uscivamo dalla nostra zona di comfort per andare incontro ad altre famiglie, né incontro ai poveri. Credo nella parrocchia, credo nella rete che pesca 153 pesci diversi. La Chiesa non è un club, è un assembramento, e la Pasqua, senza questo assembramento, senza questa diversità di facce, senza questa Armata Brancaleone intorno al fuoco, ci fa perdere il senso cattolico della salvezza.
Restano tuttavia alcune immagini bibliche per interpretare il segno di cui lei parla. Quella dell’arca di Noè, certo, che vede il salvataggio dei viventi ma anche il divorzio fra i fratelli, una volta riguadagnata la terra asciutta. E quella della Pasqua ebraica, quando gli ebrei sono riuniti per famiglie, ciascuna nella sua casa, il sangue di un agnello impresso sulla porta, al fine di proteggersi dal passaggio dell’angelo sterminatore. Infine, c’è l’immagine che ha scelto il Santo Padre il 27 marzo scorso, davanti a una piazza San Pietro che era riempita solo dalla notte e dalla pioggia: Gesù che dorme nella barca, nel mezzo della tempesta. Lascio a ciascuno di meditare queste tre immagini come tre compiti per il nostro tempo: la cura della Creazione, l’amore della famiglia e la fiducia nel mezzo del disastro.
Fra i trattamenti con cui si è cercato di far fronte al Covid-19, quello che lei dice di preferire è la terapia del plasma iperimmune. Perché?
Ci sono tre tipi di trattamento. Il primo tipo consiste nel “riposizionamento di molecole”: si testa un medicinale usato per altre patologie e si vede se funziona, sia dal punto di vista terapeutico che da quello finanziario. È su questo terreno che si è giocata la partita fra clorochina e remdesivir, cioè fra un medicinale popolare a buon mercato e un medicinale elitario, spinto dall’interesse di un grande gruppo farmaceutico. Il secondo tipo di trattamento non riutilizza ciò che è vecchio, ma fabbrica del nuovo, fatto su misura per il Sars-CoV-2: si tratta del vaccino, che per adesso appartiene al futuro, ma che corrisponde a una visione preventiva e borghese. Infine c’è il trattamento al plasma: al malato si fa una trasfusione del sangue di qualcuno che ha già attraversato la prova ed è ormai immunizzato. Se preferisco questo trattamento, è perché contiene un simbolo profondamente cristico: unisce la traversata del male e l’offerta di sé per gli altri, il sacrificio e la comunione.
Lei ama anche Etienne Binet, che nel suo libro Sovrani ed efficaci rimedi contro la peste e la morte improvvisa invita i padri di famiglia cristiani a pregare Dio di prendere la loro vita al posto di quella delle loro donne e dei loro figli. Non è una cosa un po’ troppo fatalista e astratta? Neanche il Papa ha pregato in questo modo…
Come fate a dirlo? La preghiera che domanda di morire al posto di altri non è una preghiera che si può imporre agli altri. Io non dubito che papa Francesco abbia potuto, e abbia dovuto, dal fondo del suo cuore, domandare a Dio di prendere la sua vita di pastore se ciò poteva risparmiare la vita delle pecore. Quello che è importante capire qui è che la vita non può essere ridotta alla sola conservazione della propria vita terrestre. Tendere soltanto a conservare questa vita, significa soffocarla, spuntare le ali all’uccello per non rischiare che voli via, proibire all’individuo di conoscere la verità del suo essere comunitario e la grandezza del sacrificio… Si può essere in ottima salute e buttarsi dalla finestra. La salute non basta alla vitalità. È quello che Nietzsche ha ben compreso: l’ossessione della salute e della felicità è una prospettiva da malati. Chi sta bene, chi scoppia di salute, cerca al contrario un luogo dove spendere la sua energia, qualcosa o qualcuno al quale dare vita e donare la propria vita…
La ferita rivela ciò che resta indenne, lei ha detto in una delle sue lezioni su YouTube, in questo caso l’umanità dell’uomo attraverso i secoli. Saremmo dunque ritornati contemporanei dell’umanità del tempo della peste di Manzoni, della peste nera di Boccaccio, della peste di Atene di Tucidide, eccetera. E tuttavia, dopo qualche settimana, si sono viste delle sedicenti manifestazioni antirazziste che hanno abbattuto o vandalizzato statue di personalità del passato: Cristoforo Colombo, Winston Churchill e, a Milano, il giornalista Indro Montanelli, che era stato cronista della rivolta di Budapest nel 1956. Evidentemente, la linea della continuità umana è di nuovo spezzata…
Viviamo nell’epoca del post-umanesimo e della post-storia, bisogna partire da questa constatazione. Quel che ho detto è che l’esperienza del coronavirus ci faceva uscire da questa era ricordandoci la comune fragilità umana. Durante tutto questo tempo della ferita, non si parlava più di transumanesimo né di animalismo. Si trattava prima di tutto di preservare l’umano. Ma vede, questo disvelamento dell’indenne – disvelamento paradossale, poiché ciò che resta indenne è precisamente la vulnerabilità umana – possiede un’ambivalenza. Essa segna le fine del progressismo. Ora, ciò che permetteva di tollerare il colonialismo era la credenza nel progresso. La difficoltà sta nel non credere più al progresso, continuando a credere alla storia, e dunque al fatto che il nostro passato, con la sua complessità, con la sua mescolanza di luci e di ombre, resta la nostra eredità. Vedo tre problemi nell’antirazzismo attuale. Il primo è di essere un razzismo della vittima, nel quale posso atteggiarmi a vittima perché appartengo a una certa razza, e deresponsabilizzarmi in quanto individuo. Il secondo è che esso crede nella supremazia bianca che pretende di denunciare. Dando per scontato che la violenza dei neri sui neri sia normale e che la violenza dei bianchi contro i neri sia uno scandalo quasi imperdonabile, lascia intendere che i bianchi abbiano dei doveri più elevati di quelli dei neri e portino effettivamente su di sé il fardello della civiltà. È questa la ragione per cui molti bianchi si mettono in ginocchio: si credono responsabili della bontà umana più degli altri. Terzo problema, questo antirazzismo, che non cessa di invocare il passato, è negatore della storia. Perché nella natura e nella storia ci sono delle diseguaglianze. Non sono alto un metro e ottanta. Non canto come Stevie Wonder. E sono ebreo (ma non mi viene in mente di chiedere a un tedesco di oggi di inginocchiarsi davanti a me). Capita che il Verbo si sia fatto ebreo, e che dunque non sia né bianco né nero (diciamo che era un marrone chiaro). Capita anche che la razionalità si sia sviluppata in modo particolare nella Grecia antica con Ippocrate e Tucidide, Platone e Aristotele. Non possiamo farci niente: sono dei fatti.
Ma la Bibbia ci ha insegnato che ogni elezione è una responsabilità per il beneficio di tutti: Gesù l’Ebreo «ha riscattato, al prezzo del suo sangue, uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9). E la cultura europea ci ha insegnato che la «secondarietà», come dice Rémi Brague, è stata una fortuna. All’opposto di un’identità autoctona, che avrebbe avuto le sue fonti in se stessa, i popoli europei hanno forgiato un’identità romana, cioè che pensa se stessa a partire da un doppio primato esterno, quello del pensiero ellenico e quello della rivelazione giudaica. Roma, in realtà, ha pensato se stessa attraverso Atene e Gerusalemme. Essere francese o essere italiano non è consistito soltanto nell’attingere alla propria profondità, ma nel dialogare coi testi greci e latini, e nel contemplarsi nello specchio delle Scritture. Già con Omero, che sembra spesso prendere le parti dei troiani, e con Eschilo che nei Persiani adotta il punto di vista dei vinti nella battaglia Salamina (nella quale lui faceva parte dei vincitori), s’è sentito il bisogno di pensarsi attraverso l’altro, con l’altro, in uno sguardo che, per natura, è anzitutto di ricettività. In questo consiste l’umanità che si conosce attraverso le umanità: studi umanistici (l’intervistato lo dice in italiano, ndt).
Aggiungo che il sedicente antirazzismo di Black Lives Matter e compagnia si coniuga spesso con un certo antisemitismo. Questa apparente contraddizione è significativa di una coerenza inconfessata. L’antisemitismo è sempre una negazione della storia come tale, poiché l’esistenza degli ebrei è legata all’avvenimento storico per eccellenza. Questa negazione della storia, questo sogno di un’indifferenziazione generale, rappresenterebbe un ritorno al caos originale precedente la Creazione, una perdita della parola che crea distinguendo.
Foto Ansa
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