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Da Montanelli a Spike Lee. Che razza di civiltà si fonda sulla sabbia dei mea culpa?

La guerra alle discriminazioni e la tentazione letale di salvare il mondo col moralismo anziché col perdono

Caterina Giojelli
17/06/2020 - 3:00
Società
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Ma che razza di storia è quella che si bea di procedere con furia regressiva? Che c’entrano toni e analisi da processo di Norimberga con la corte della bomboletta e i chiocciolamenti di twitter? «Le mie parole erano sbagliate»: il duro Spike Lee – sì, quello dell’ultimo oscar per BlacKkKlansman e del poliziotto afroamericano infiltrato nel Ku Klux Klan solo contro il potere bianco – si è cosparso il capo di cenere per aver difeso l’amico Woody Allen dalla “cancel culture”, o cultura dell’annullamento. Un attimo di pietas, un cedimento durante un’intervista in radio, che Twitter, eldorado della superiorità morale, non gli ha perdonato: «Mi scuso profondamente – cinguettava Lee 24 ore dopo avere elogiato Allen per il suo lavoro di “magnifico regista” -. Le mie parole erano sbagliate. Non tollero molestie sessuali, aggressioni o violenze, danni reali che non possono essere minimizzati».

REDDIT E IL BLACKWASHING

Anche l’amicizia diventa reato nei giorni infuocati del Black Lives Matter, anche il metoo ritrova linfa purché ci alleni a trasformare ogni giudizio sull’opera in un’estensione livorosa del pregiudizio sulla persona. Da cui smarcarsi sotto i riflettori, come ha provato a fare Alexis Ohanian: «Sto scrivendo queste parole da padre di una figlia nera che un giorno potrà chiedergli: tu cosa hai fatto?», ha twittato il cofondatore milionario di Reddit e marito di Serena Williams, dimettendosi dal consiglio di amministrazione della sua piattaforma per lasciare il posto a una persona afroamericana.

LE INUTILI SCUSE DEL COMICO BIANCO

Peccare, scusarsi, compensare. Dall’uccisione di George Floyd la ragioneria delle discriminazioni lavora a pieno ritmo: sulla Hollywood Boulevard, a Los Angeles, la quarantenne Leach manifesta, tra i cori “poliziotti assassini” e gli stendardi di Floyd, vestita con maglietta Black Lives Matter e ali di piume color arcobaleno, dichiarandosi triplice vittima in quanto nera, donna, lesbica. E le scuse del comico Jimmy Fallon per aver osato proporre in passato uno sketch sui neri pitturandosi la faccia di nero vengono rispedite al mittente: troppo facile per un bianco chiedere scusa, invitare ora in trasmissione ospiti di colore impegnati nelle proteste: quanti neri piuttosto, gli viene chiesto, lavorano per la sua rete?

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TOMBINI FASCISTI A ROMA

Uno denunciare, due battersi il petto, tre riparare. Sloggiare Colombo, impacchettare Churchill, abbattere Jefferson. E riservare lo stesso trattamento usato verso le statue alle persone: epurati i giornalisti non allineati delle grandi redazioni americane, cancellare l’ebreo Woody Allen, pretendere ammenda sulle molestie da un antisuprematista come Lee, scagionarsi come il bianco Ohanian. E in Italia? Dopo l’imbrattamento della statua di Montanelli (Montanelli “il pedofilo”, Montanelli “il razzista”, denunciano i Sentinelli a guardia degli Allen e dei Trump di Milano, e gli immancabili quattro pirla dei collettivi studenteschi rispondono), siamo già alla fase tre. «Roma è fascista», denuncia su Internazionale la scrittrice italosomala Igiaba Scego: se l’America ha finalmente capito che «la distruzione dei corpi dei neri ha anche a che fare con uno spazio urbano che non è neutro», che fare nella capitale, dove i fasci littori spuntano da tombini, ponti, palazzi, «dove un passato di violenza e coercizione» è «vivo nello spazio urbano», «contamina il presente” e «può provocare danni alle generazioni future»? Scego invoca Gianni Rodari e quell’idea di riempire di «aggiunte gli spazi bianchi», «costruire monumenti riparativi», «dare dignità, anche monumentale e statuaria, a chi ha sofferto. Se i nostalgici della schiavitù a inizio novecento hanno progettato statue razziste, forse, soprattutto ora dopo la morte di George Floyd, anche qui in Italia è arrivata l’ora di costruire monumenti dedicati a schiavi, colonizzati, vittime del fascismo», e sarebbe bello che «uno street artist o un comune, dedicasse una statua, un disegno, un ricordo a quella bambina lontana» brutalizzata da Montanelli.

«MEGLIO UNA DONNA NERA DI UN UOMO NERO»

Riparare, riparare, riparare: che storia diventa dunque questa, ridotta a brandelli, sabbia e detriti dalla caccia indiscriminata alla discriminazione – al discrimine, non ciò che unisce ma ciò che separa l’uomo giusto dall’ingiusto, l’azione legittima da quella illegittima? Che c’entra la memoria con questa sorta di terapia riparativa del senso di colpa misurato in base al Vangelo dell’uguaglianza edizione 2020? E a cosa porta, se non alla guerra totale, questa inesauribile e assurda campagna contro ogni forma di discriminazione, occhio per occhio, dente per dente? Guerra tra pari e guerra tra impari, tra chi ha e chi non ha, tra coloro che si ritengono simili e coloro che si ritengono dissimili: così Giancarlo Ricci, nel suo bel libro sulla Postlibertà, parlando di una giustizia sociale che invece di essere affrontata nelle sue cause e implicazioni assolutamente vaste e complesse, si risolvesse in un teorema relativo all’altro: «Non dimentichiamo, parodiando Dostoevskij, che l’uomo ama la pace, ma ancor più ama denunciare l’ingiustizia che vede incarnarsi nell’altro». Il risultato è che non si salva nessuno: «Meglio del farsi sostituire da una persona di colore sarebbe stato farsi sostituire da una donna di colore», ha twittato Ellen Pao, ceo ad interim di Reddit, vale per Churchill che ha sconfitto Hitler ma resta pur sempre un simbolo del suprematismo bianco, vale per le dimissioni di Ohanian, che ha lasciato il posto a Michael Seibel, primo nero del board di Reddit, ma pur sempre un uomo.

LA PAVIDA CIVILTÀ DEI MEA CULPA

Ha ragione Alessandro Sallusti a dire «giù le mani da Indro Montanelli, perché altrimenti ognuno potrebbe sentirsi libero di alzarle su chi gli pare», ha ragione Pigi Battista a ricordare che la furia dei vandali milanesi «non riesce nemmeno a concepire una protesta davanti a un’ambasciata dell’Iran dove non negli anni Trenta, ma ora, in questo momento, le bambine di dodici anni vengono consegnate spose a vecchi turpi che le strappano alle famiglie consenzienti». Ha ragione chiunque provi orrore a edificare sulla colpa, e soprattutto sui mea culpa, lo storytelling di nuovi mondi e nazioni. Pensare che è stato il padre della Raimbow Nation a elevare il perdono a categoria politica, non Gesù ma Nelson Mandela: è diventato l’icona internazionale dei diritti civili e Black Lives Matter è il motto più usato per canonizzarne l’apporto unico che diede alla storia del suo popolo.

GROSSMAN, RICORDARE E PERDONARE

E che dire, invece, di quell’ebreo ucraino, Vasilij Grossman, che mentre i nazisti assassinavano sua madre e il terrore comunista inghiottiva a milioni la sua gente, guardava la storia di quegli uomini, brutti, deboli, eppure fraternamente simili ai soldati sofferenti, e proprio sull’umanità dei delatori, traditori, cannibali, torturatori elevava il suo inno alla rivoluzionaria capacità di perdonare: «Quegli uomini erano pur sempre uomini e cosa fantastica, meravigliosa lo volessero o no, essi avevano impedito che la libertà morisse; perfino i più terribili tra loro l’avevano custodita nelle loro orrende, deformi, ma pur sempre umane anime». La storia non ci ha nascosto padri, madri, figli dell’Occidente capaci di allungare il tozzo di pane a criminali morenti, di un abbraccio all’assassino di proprio padre, un gesto di grazia verso il più sanguinario degli attentatori, capaci di ricordare l’orrore e perdonare.

IL DISCRIMINE CHE SALVA DALLA GHIGLIOTTINA

Certo, qui nessuno è santo, né si chiama Vasilij Grossman, o Hannah Arendt, o Etty Hillesum, o Varlam Šalamov, o Václav Havel. Ma che perdonare sia il giudizio più radicale e rivoluzionario sul male, perché capace di superarlo, o che la storia del mondo sia fondata non sulla sabbia del peccato bensì sul sale, il sacrificio e la bontà insensata mai figlia del proprio tempo, dell’etica sociale di questa o quell’epoca, questo dovrebbero saperlo anche i sassi. Esercitarsi a guardare anche a quel discrimine, quel punto che separa davvero giusti e tutti gli altri, non servirà a scriverci Vita e destino o perdonare le malefatte di Jefferson. Ma a risparmiarci le ghigliottine organizzate dal divano per gli Spike Lee, l’imperativo morale del blackwashing aziendale, i tribunali della bomboletta spray e i murales compensativi come prova muscolare di riscatto dall’Italia fascista e salvataggio delle nuove generazioni, speriamo di sì.

Foto Ansa

Tags: black lives mattergerorge floydIndro MontanellirazzismoSpike LeeVasilij Grossmanwoody allen
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