Così la goffaggine di Obama sulle primavere arabe spaventa i sauditi. Che temono la fine di un’alleanza storica
Una volta c’era l’alleanza fra Arabia Saudita e Stati Uniti, cementata nei decenni dalla scoperta del primo petrolio saudita compiuta dall’Aramco (1933), dalla protezione militare del regno da parte americana ai tempi della Seconda Guerra Mondiale come in occasione delle minacce di Saddam Hussein dopo l’invasione del Kuwait nel 1990, dalla comune lotta contro il comunismo e contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, fino all’azione coordinata contro il nemico comune, l’Iran degli ayatollah. C’era una volta, ma a Riyadh sono convinti che non ci sia più.
I primi grossi dubbi sono sorti nel febbraio 2011, quando gli americani hanno abbandonato alla sua sorte dalla sera alla mattina un alleato trentennale come Hosni Mubarak, che era pure un protetto dei sauditi. I quali come tutti hanno letto Hemingway e han provato una vertigine: quando suona la campana, non chiederti per chi suona, perché suona anche per te. Poi c’è stata la faccenda della deposizione del presidente egiziano nonché fratello musulmano Morsi, salutata con soddisfazione da Riyad mentre gli americani hanno avuto sì il buonsenso di non chiamarla “golpe”, ma contemporaneamente hanno tagliato gli aiuti ai militari egiziani.
Quindi la faccenda che ha mandato su tutte le furie re Abdullah e soprattutto il capo dei servizi segreti Bandar Bin Sultan: la rinuncia degli americani, nel settembre scorso, a un intervento militare multilaterale punitivo contro il regime siriano di Bashar el Assad dopo che questo aveva presumibilmente utilizzato armi chimiche in zone densamente popolate, nonostante Barack Obama in persona avesse autorevolmente affermato un anno prima che il ricorso da parte dei governativi a tali armamenti avrebbe costituito la “linea rossa” superata la quale l’America avrebbe fatto sentire la voce dei loro cannoni.
E infine la peggiore notizia che la monarchia custode dei luoghi santi dell’islam immaginava di dovere un giorno ascoltare: la decisione nel novembre passato, diventata effettiva lunedì 20 gennaio, di dare vita a un accordo provvisorio di sei mesi con cui l’Iran si impegna a congelare le sue attività nucleari in cambio di un allentamento delle sanzioni economiche internazionali volute dagli Stati Uniti che si sono accumulate sul paese a partire dal 2006. E quel che è peggio, l’America appare intenzionata a proseguire il negoziato con Teheran per arrivare a un accordo definitivo.
Incredulità, rabbia e paura sono i sentimenti che si succedono nei cuori sauditi. Incredulità perché nel settembre scorso tutti gli obiettivi della politica estera e di sicurezza di Riyad sembravano a portata di mano: il fallimento delle primavere arabe che avrebbero dovuto spazzare via tutte le autocrazie del mondo arabo era ormai certificato; gli odiati Fratelli Musulmani che avevano vinto le elezioni in Egitto e Tunisia, o erano finiti in prigione o stavano per essere defenestrati dal potere; Iraq e Iran, storici avversari dell’Arabia Saudita, apparivano gravemente indeboliti dall’instabilità interna il primo, dagli effetti delle sanzioni economiche il secondo; e dopo i massacri di Ghouta a base di sarin la fine del regime alawita in Siria e la sua sostituzione con un potere sunnita sembrava affare di settimane. La rilegittimazione di Assad attraverso l’accordo sulla distruzione delle armi chimiche sponsorizzato dai russi e la tregua con l’Iran decisa dagli americani due mesi dopo, con tanto di telefonata fra Obama e il presidente iraniano Rohani, hanno infranto i sogni sauditi.
La rabbia nasce dalla convinzione che gli americani stiano sbagliando tutte le mosse per pavidità, incompetenza, debolezza, irresponsabilità, inaffidabilità, opportunismo. Ma poi subentra la paura: se un uomo come il principe Bandar, tenuto in alta considerazione dalle amministrazioni Reagan e Bush padre, oggi è snobbato dallo staff di Obama nonostante sia diventato il capo dei servizi segreti e l’uomo da cui dipendono i destini della guerra civile siriana, significa che gli interessi geopolitici americani sono cambiati. Grazie al gas e al petrolio di scisti gli Stati Uniti sono meno dipendenti dagli idrocarburi del Golfo Persico, e intendono spostare il baricentro del loro impegno politico e militare in Estremo Oriente, dove sta montando una crisi internazionale fra Cina, Giappone e le due Coree, in un’area dove viene prodotto quasi la metà del Pil mondiale.
Il braccio di ferro con Teheran
Per l’Arabia Saudita, insomma, il relativo disimpegno americano in Medio Oriente è notizia foriera di calamità. Il paese è diventato la potenza regionale decisiva insieme e in contrapposizione all’Iran, ma la sua posizione non è affatto solida. Non è l’Iran il nemico più pericoloso per la sterminata e litigiosa famiglia Saud. Lo sono molto di più le richieste popolari di partecipazione politica e le oscillazioni verso il basso del prezzo del petrolio. Re Abdullah è a capo della monarchia più assoluta del mondo, in un paese senza costituzione e senza parlamento, una gerontocrazia dove il potere passa di fratello in fratello, e deve comprare la lealtà politica dei sudditi attraverso un’alta spesa clientelare e assistenziale finanziata dalla rendita petrolifera, l’unica industria del paese. Perciò la monarchia saudita ha bisogno che movimenti del tipo della primavera araba falliscano e che il prezzo del petrolio resti alto. Fratelli Musulmani e democratici arabi sono una minaccia per il potere della famiglia Saud nella stessa misura, in quanto rappresentano alternative politiche concrete alla sua autocrazia; allo stesso modo è percepito come un pericolo il ritorno del petrolio iracheno e di quello iraniano sul mercato mondiale, col conseguente abbassamento del prezzo del greggio.
Per queste ragioni i sauditi in questi ultimi tre anni hanno lavorato infaticabilmente al fallimento delle primavere arabe e alla destabilizzazione di alcuni paesi. Hanno sfigurato le richieste di democrazia e di inclusione dei manifestanti in Siria, Bahrein, Libano e Iraq in una contesa di potere fra sunniti e sciiti per l’egemonia politico-religiosa, appoggiando i sunniti in chiave settaria. Il braccio di ferro con l’Iran e coi suoi alleati è stato ricercato e voluto per distrarre le masse arabe dalle richieste di democrazia politica. La guerra civile in Siria è stata resa possibile dai soldi e dalle armi inviate dai sauditi a partire dal 2012, nel palese intento di cambiare il clima del dibattito politico nel mondo arabo: non più la questione dell’apertura dei sistemi alla democrazia, ma la necessità per i sunniti di schierarsi dalla parte dei loro fratelli oppressi da governanti politicamente e religiosamente prossimi agli sciiti iraniani. In Bahrein l’Arabia Saudita ha mandato le truppe a reprimere la maggioranza sciita che protestava contro il minoritario potere dinastico sunnita; in Iraq alimenta la protesta e la ribellione armata dei sunniti contro il governo dello sciita al Maliki e favorisce la soluzione di un governo autonomo nel triangolo sunnita e nell’Anbar sul modello di quello del Kurdistan iracheno per mantenere debole il paese e rallentare il suo ritorno ai livelli di produzione petrolifera dell’epoca del rais. In Egitto salva il paese dalla bancarotta con 12 miliardi di dollari di cui beneficia il governo creato dai militari che hanno deposto Morsi, il presidente che voleva riallacciare i rapporti fra il Cairo e Teheran.
Queste politiche, perlopiù distruttive, hanno servito gli interessi sauditi, ma la ricerca di un accordo politico pacifico con l’Iran da parte degli americani rischia di mandarle gambe all’aria. Riyad cerca di far cambiare idea a Washington mostrando di volere cambiare alleanze; minaccia di praticare l’unilateralismo senza tenere conto degli interessi americani. Appartiene al primo tipo di reazione l’enfasi mediatica sui rapporti instaurati con la Francia, il nuovo partner strategico dell’Arabia Saudita. Lo spettacolo del paese della laicité e del velo islamico proibito nelle scuole allineato sugli obiettivi politico-militari dei wahabiti che proibiscono alle donne persino di prendere la patente evidentemente è considerato pagante da Abdullah come da Hollande, al punto che nel 2013 i due capi di governo si sono incontrati due volte, cosa mai successa nella storia. Ma mentre Hollande è convinto di poter sostituire gli Usa nel cuore e nei portafogli dei governanti arabi, i sauditi giocano cinicamente il loro gioco solo per mettere in ansia gli americani e farli ingelosire: nella missione del novembre scorso Hollande si è fatto accompagnare da tutte le principali industrie dell’energia e degli armamenti francesi, ma è tornato praticamente a mani vuote.
Quanto conta lo zio Sam
Più concrete le politiche unilaterali che Riyad sta scegliendo. L’improvvisa e clamorosa rinuncia, nell’ottobre scorso, a occupare uno dei seggi non permanenti nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, presentata come una forma di protesta contro la paralisi di cui ha dato prova l’Onu riguardo alla crisi siriana e contro la mancata rappresaglia militare a guida americana per l’uso di armi chimiche da parte del regime, permette all’Arabia Saudita di tenersi le mani libere per iniziative non propriamente pacifiche. Il progetto di una base saudita-statunitense in territorio giordano per l’addestramento di gruppi selezionati di ribelli siriani è stato abbandonato, e tutti gli sforzi sono stati concentrati nella creazione e nella promozione di Jaish Al Islam, la coalizione militare ribelle siriana di tendenza islamista capeggiata da Liwa Al Islam, un gruppo salafita che è nella manica dei sauditi. Nel Libano ritornato terra di autobombe che falciano alti esponenti politici e militari dei fronti contrapposti, l’Arabia Saudita offre 3 miliardi di dollari all’esercito nazionale perché possa raggiungere la parità strategica col braccio armato dell’Hezbollah sciita. E da qualche tempo i Saud lasciano correre la voce che, se gli Usa accetteranno un accordo capestro con l’Iran, l’Arabia Saudita non resterà a guardare: non avvierà un suo programma nucleare, ma comprerà qualche bomba atomica già pronta dal Pakistan.
D’altronde se Islamabad oggi è dotata di deterrente atomico, lo deve in gran parte ai finanziamenti sauditi. Ma forse anche queste sono solo gesticolazioni per convincere gli americani a non distrarsi troppo. Lo zio Sam è insostituibile, a Riyad lo sanno fin troppo bene.
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4 commenti
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Non é goffaggine é lo choc per quello che succede in tutto il mondo arabo. Il secolarismo (irreversibile) non é certo una “buona” per USA e non solo.
Se lo zio Sam è insostituibile, la satrapia saudita assolutamente no.
E negli ultimi tempi, con la sua politica “indipendente”, ha pestato troppi piedi altrui.
Con grandi disponibilità economiche, ma con poco più di 20 milioni di abitanti, piùdi tanto non possono contare. Le contraddizioni politiche interne, poi, saranno un’ottima esca per un “regime change”.
Un brusco ridimensionamento dell’epicentro del fondamentalismo islamico che è l’Arabia Saudita può solo essere positivo.Un ridimensionamento dei loro ex alleati americani sarebbe altrettanto auspicabile per il bene di tutti.
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