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Cancellieri-Ligresti. «Altro che giustizia, il partito “più carcere per tutti” ha l’orizzonte cupo dell’ingiustizia generale»

Intervista a Luigi Manconi, senatore Pd e presidente della Commissione diritti umani: «Il ministro sotto accusa per aver fatto il suo dovere. No al livellamento verso il basso delle garanzie»

Rodolfo Casadei
09/11/2013 - 4:00
Interni
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«Se non possiamo essere uguali nei diritti è meglio esserlo nei non diritti? Tutti sulla forca pur di essere allo stesso livello? È all’opera un meccanismo demagogico feroce: in nome di un presunto egualitarismo si propugna un livellamento delle garanzie verso il basso». Luigi Manconi, senatore Pd, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, è un estimatore di Annamaria Cancellieri, che considera il ministro della Giustizia più attivo negli ultimi anni per quel che riguarda i problemi delle carceri italiane, ma soprattutto è un critico intransigente dei riflessi condizionati in materia di giustizia e del populismo giustizialista. Sul giornale online Huffington Post ha esposto il suo pensiero sul caso Cancellieri-Ligresti, attaccando chi chiede le dimissioni del ministro della Giustizia.

Senatore Manconi, alcuni giornali e alcuni esponenti politici hanno messo sotto accusa la Cancellieri per il suo intervento in relazione alla detenzione di Giulia Ligresti, lei invece ha messo sotto accusa il conformismo nazionale e la cultura del sospetto. Cosa intende dire?
C’è stata una reazione che corrisponde a un riflesso condizionato. Basta evocare la parola o l’immagine del privilegio e si scatena subito una mobilitazione emotiva che esprime volontà di rivalsa sociale e che esige la punizione dei privilegiati. È una reazione che si spiega molto facilmente: l’Italia è un paese dove i privilegi sono tuttora numerosissimi e assai consistenti, e dunque coloro che ne sono esclusi patiscono la condizione di disparità in cui vivono; ne chiedono conto e reclamano per lo meno quella sorta di risarcimento morale che è la punizione di quanti sono titolari di posizioni di vantaggio.

Ci ha molto colpito il suo riferimento, nell’intervento sull’Huffington Post, al concetto di “utopia regressiva”.
Beh, certo, perché di fronte a un caso come questo io mi aspetterei – ed è la mia personale posizione – che ci si battesse e si chiedesse a gran voce che tutti coloro i quali si trovano nella condizione di Giulia Ligresti, possano usufruire dello stesso trattamento che in base a precise disposizioni di legge lei ha ricevuto. E invece si manifesta una sorta di utopia regressiva, ovvero una domanda di livellamento verso il basso, di equiparazione dei diritti al più infimo livello. Quasi un azzeramento delle garanzie e dei diritti, invece che l’innalzamento di tutti al godimento di quelle stesse garanzie e di quegli stessi diritti. È un’utopia regressiva, l’idea di un mondo di uguali nell’ingiustizia. Se non possiamo essere tutti uguali nei diritti, sembra essere il messaggio, dobbiamo esserlo nello stare allo stesso livello. E lo stesso livello è per esempio quello del palco su cui si innalza la forca. Nasce da qui lo slogan e il partito del “Più carcere per tutti”. Una sorta di via giudiziaria alla lotta di classe che non ha la nobiltà e la grandiosità, non ha quell’orizzonte magari ingenuo ma luminoso di una rivoluzione universale, ma ha l’orizzonte cupo e tetro dell’ingiustizia generale.

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Ma non è che forse siamo andati ancora un po’ più in là? In Italia c’è più speranza di essere liberati per incompatibilità col regime carcerario se si è un poveraccio che se si è un potente o considerato tale.
È un po’ paradossale questa interpretazione, ma è un paradosso che contiene una sua verità. Io sono testimone personale del fatto che Angelo Rizzoli, affetto da sclerosi multipla e da una grave insufficienza renale, ha dovuto aspettare quattro mesi e mezzo prima di vedere riconosciuto il suo diritto agli arresti domiciliari, e mentre si trovava nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini non ha potuto usufruire delle stampelle perché in carcere le stampelle non entrano. Dunque il paradosso che lei propone contiene una parte di verità. È evidente che Angelo Rizzoli è stato danneggiato dal fatto di essere persona nota.

Il ministro della Giustizia ha detto che deve essere responsabile e che ha il dovere di rispettare le leggi, ma deve anche avere il diritto di essere un essere umano. Come commenterebbe?
Io personalmente non riesco a immaginare un uomo politico, un governante, un rappresentante delle istituzioni che annichilisca la sua dimensione umana. Penso che quanti chiedono al ministro di rinunciare alla sua dimensione umana esprimono poca consapevolezza non della dimensione umana del ministro, ma della loro propria. Se ancora c’è. Lo spero contro ogni speranza.

Non c’è profilo penale in quel «farò tutto il possibile» che la Cancellieri pronuncia nella telefonata intercettata, però la sua diffusione sembra mirata a danneggiare il ministro, a macchiare la sua immagine. 
L’effetto ottenuto è stato proprio questo, non c’è dubbio. In Italia c’è una sorta di morbosa passione per la diffusione delle intercettazioni e dunque la cosa sarebbe probabilmente avvenuta nei confronti di chiunque. Però in questo caso si tratta di un ministro che aveva sin dal primo momento mostrato la maggiore attenzione per il carcere fra tutti i ministri di cui io ricordi l’attività. Parlo almeno degli ultimi vent’anni. Di un ministro che aveva riconosciuto ripetutamente la necessità di amnistia e indulto. Non sto assolutamente dicendo che quella intercettazione è stata pubblicata per tali motivi. Dico però che certamente il ministro non è popolarissimo in alcuni settori dello Stato e presso alcune istituzioni.

C’è chi eccepisce sul fatto che, proprio perché si tratta di amici ed ex datori di lavoro, la Cancellieri si sarebbe dovuta astenere. 
Astenere da cosa? C’è ancora un equivoco che circola, quello dell’interferenza: la verità è che la Cancellieri non ha detto una sola parola a un solo magistrato tra coloro che dovevano decidere la scarcerazione e il passaggio ai domiciliari di Giulia Ligresti. È intervenuta sul Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che dipende direttamente da lei. Ed è intervenuta per quello che è un suo compito istituzionale, cioè accertarsi che le condizioni di reclusione fossero adeguate sia alla figura della reclusa che al suo stato di salute. Ha fatto semplicemente il suo dovere.

C’è chi ne fa un problema di cellulare. Antonio Ingroia ha detto che o il ministro mette a disposizione di tutti il suo numero di telefono, oppure si deve dimettere.
Non sono al corrente di questo intervento di Ingroia, ma questo ragionamento l’ho sentito fare in questi giorni da giornalisti e politici. Siamo nel campo dello spirito di patata. È un campo frequentatissimo. Si tratta di una sciocchezza assoluta. I modi per accedere al ministro sono tanti, e come è già stato dimostrato, il numero di e-mail che le giungono è di centinaia. Queste e-mail segnalano condizioni di detenzione alle quali il ministro replica in un modo o nell’altro. Oltre a ciò, ci sono tanti canali attraverso i quali si può raggiungere il ministro della Giustizia. Esistono associazioni ed esistono i parlamentari, ai quali ci si può rivolgere. Se qualcuno mandasse al Senato una lettera indirizzata a me, qualora contenesse indicazioni utili e denunciasse una condizione iniqua, io sarei in grado di far giungere la segnalazione al ministro della Giustizia. E come me lo può fare quasi un migliaio di parlamentari di Camera e Senato.

Lei è favorevole all’amnistia, come il ministro Cancellieri che pure si rimette alla sovranità del Parlamento. Le condizioni precarie delle carceri italiane sono sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere. Ma c’è un pensiero che anche le persone meno prevenute si fanno: «Sì, amnistiamo i detenuti. Ma è probabile che molti di loro torneranno a delinquere e dunque torneranno in carcere». L’impegno per l’amnistia non dovrebbe andare di pari passo con un impegno per la rieducazione del detenuto e per il suo inserimento sociale e lavorativo quando esce per il fine pena o per un provvedimento di clemenza?
Sicuramente sì. Così deve essere fatto, ed è possibile fare. Ma la frase «tanto poi tornano tutti in carcere» è l’ennesimo indecente luogo comune che coincide con un falso clamoroso. Una ricerca scientifica condotta da me e dal professor Giovanni Torrente ha mostrato con dati ufficiali e non contestabili come la recidiva tra coloro che hanno beneficiato dell’indulto del 2006 è esattamente la metà della recidiva registrata tra coloro che scontano interamente la pena in carcere. Nonostante quell’indulto, sacrosanto e necessario, abbia avuto effetti positivi meno di quanto sarebbe stato possibile perché non si è potuta varare anche l’amnistia, in quanto il governo di allora è durato solo 15 mesi dopo il varo dell’indulto stesso. Comunque ha avuto lo straordinario risultato di dimezzare la recidiva che ordinariamente si registra tra coloro che hanno scontato una pena detentiva.

La soluzione delle residenze a sorveglianza attenuata e la regionalizzazione di alcune carceri la convincono?
Sì, pienamente. E aggiungo che si tratta di soluzioni già previste in passato, proposte da altri ministri, ma nessuno come Annamaria Cancellieri si è prodigata in così pochi mesi perché si creassero le condizioni per realizzare queste riforme indispensabili.

Lei ha detto che la Cancellieri agli occhi di alcuni ha il difetto di essersi occupata troppo di carceri e di essere favorevole all’amnistia. Forse l’ha danneggiata anche quello che aveva detto a settembre sulla legge Severino, quando sembrava avere spezzato una lancia in favore di Silvio Berlusconi sulla questione della retroattività?
Io escludo che la pubblicazione di questa intercettazione risponda a motivi diversi da quello di tirar fuori un elemento che era destinato a rimanere riservato e che getta un’ombra sulla Cancellieri. Io credo che sia tutto qui il motivo di questa cosiddetta rivelazione. Poi, le posizioni della Cancellieri contribuiscono agli attacchi che lei subisce una volta che l’intercettazione è stata resa nota, fanno da moltiplicatore. Ma la pubblicazione dell’intercettazione corrisponde solamente al fatto che si trattava di un’intercettazione, diciamo così, pruriginosa. Quindi il giornale che la pubblicava sapeva che si trattava di un fatto di notevole interesse popolare. Sarebbe piaciuta, sarebbe stata accolta con entusiasmo in alcuni settori. Se uno dispone di enormi fascicoli colmi di registrazioni di intercettazioni, indubbiamente lì troverà materiale degno di pubblicazione nell’ottica di un’interpretazione invasiva e morbosa della vita privata dei singoli.

@RodolfoCasadei

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