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Siria, Obama si ricrede. Assad non è più il nemico numero uno, ora bisogna annientare il Califfo

Il presidente Usa pensava di usare la guerra contro lo Stato islamico per indebolire l’Iran e rafforzare l’egemonia americana in Medio Oriente. Ma non ha funzionato

Rodolfo Casadei
07/02/2015 - 4:00
Esteri
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K
obane definitivamente riconquistata
dai curdi di Siria; John Kerry che alla conferenza di Londra annuncia che la coalizione ha spazzato via metà della leadership dell’Isis e che la progressione di quest’ultima è stata arrestata; l’ammiraglio Austin che calcola a 6 mila il numero dei jihadisti fisicamente eliminati fra agosto e oggi, diserzioni (con annesse fucilazioni) nei ranghi dello Stato islamico e difficoltà economiche di ogni tipo nei territori sotto il suo controllo; l’offensiva per la riconquista di Mosul annunciata per la primavera o al più tardi per l’estate: l’Isis è sulle ginocchia? La più minacciosa e imprevista impresa del terrore degli ultimi decenni è già sul viale del tramonto dopo soli sette mesi di auge? Decisamente no.

Quanto sia difficile la partita con lo Stato islamico e quanto grande sia considerata la minaccia da tutti i centri di potere mondiali lo si può intuire da un singolo fatto: il cambiamento di linea degli Stati Uniti nei riguardi della presidenza di Bashar el Assad in Siria. Da qualche settimana gli interventi pubblici del segretario di Stato americano John Kerry sulla crisi siriana sono privi di un elemento che è stato costante negli ultimi quattro anni: la richiesta di dimissioni di Assad come precondizione alla soluzione del conflitto. La segreteria di Stato statunitense non ha avuto nulla da obiettare all’iniziativa russa di mediazione che ha riunito a Mosca la settimana scorsa esponenti di primo piano del regime di Damasco, oppositori interni ufficiali e alcuni affiliati alla Coalizione nazionale siriana, che ha boicottato l’evento: questi ultimi hanno partecipato a titolo personale.

Il vertice si è concluso con un nulla di fatto, ma è significativo che alla vigilia dell’appuntamento la portavoce del dipartimento di Stato americano Jen Psaki abbia detto a proposito degli oppositori che partivano per Mosca: «Gli abbiamo fatto sapere che siamo favorevoli a una loro partecipazione al meeting». Negli stessi giorni in un editoriale del New York Times si poteva leggere: «Alti dirigenti americani dicono che l’unico modo per mettere fine alla guerra civile (in Siria, ndr) e creare un unico fronte contro l’Isis è una sorta di accordo politico che includa la Russia e l’Iran, cioè i principali alleati di Assad, e la Turchia e l’Arabia Saudita, i suoi maggiori oppositori (…). I dirigenti americani vedono emergere un crescente consenso internazionale intorno al bisogno di una soluzione diplomatica a lungo termine fra Assad e i diversi gruppi ribelli».
Consola scoprire che la linea politica su Siria e Isis del governo del più potente paese del mondo si sta avvicinando a quella che le pagine di questo settimanale indicano già da due anni. Ma senza lasciarsi distrarre dalla gratificazione occorre interrogarsi sui motivi di questa svolta. Che non sono tutti rassicuranti.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Dopo le scelte estive
Nell’estate scorsa gli Stati Uniti hanno deciso che il loro intervento contro l’Isis non doveva in alcun modo essere interpretato come un ammorbidimento nei confronti del regime siriano: Siria e Iran sono state tenute intenzionalmente fuori dalla coalizione arabo-occidentale convocata da Washington per la campagna aerea contro il Califfato, e i bombardamenti anti-Isis sul territorio siriano non sono stati concordati con Damasco. La linea ufficiale era che gli Stati Uniti avrebbero addestrato migliaia di aspiranti ribelli anti-Assad non islamisti per usarli prima come truppe di terra contro l’Isis in Siria (sulla falsariga dei peshmerga curdi e delle milizie sciite in Iraq) e poi per chiudere la partita col dittatore di Damasco.

Sono però bastati pochi mesi per capire quanto velleitario fosse il progetto: i ribelli e aspiranti tali interessati al programma americano sono pochi e inaffidabili, gli stati della regione non sono disponibili a ospitarli tranne l’Arabia Saudita, che non dà proprio l’idea di una grande protettrice della laicità e del pluralismo religioso, nel frattempo la Cia ha dovuto quasi arrestare le consegne di armi all’opposizione perché Isis e Jahbat al Nusra (succursale siriana di al Qaeda) hanno continuato a guadagnare terreno a danno delle formazioni legate al sempre più sbrindellato Libero Esercito Siriano e all’Occidente.

Poi gli Stati Uniti si sono guardati attorno e hanno constatato che gli altri alleati reali o potenziali non danno molte garanzie in più. La Turchia prosegue con la sua neutralità benevola nei confronti dell’Isis, non certo della coalizione che la combatte. L’unico uomo di Stato al mondo che non si è compiaciuto per la riconquista di Kobane da parte delle locali forze curde è stato Recep T. Erdogan. Il presidente turco ha evocato la nascita di una regione curda siriana autonoma semi-indipendente sul modello dell’attuale Kurdistan iracheno, frutto della vittoria dei combattenti del Pyd supportati dall’aviazione americana, come l’inizio di una nuova calamità regionale.

Gli americani e gli altri coalizzati potrebbero rispondere a Erdogan «chi è causa del suo mal pianga se stesso»: se la Turchia non avesse partecipato entusiasticamente alla destabilizzazione della Siria, oggi la Rojava (il territorio siriano abitato in maggioranza da curdi) non sarebbe contesa fra formazioni armate curde indipendentiste e terroristi jihadisti. Tuttavia anche per gli americani i curdi sono un problema, per almeno due motivi. Il motivo di fondo consiste nel rafforzamento politico delle forze indipendentiste curde in tutto il Vicino Oriente, a motivo del collasso di alcuni stati arabi e dei meriti conquistati sul campo fornendo le truppe di terra che in questi mesi hanno contrastato l’Isis al prezzo di centinaia di caduti in Siria e in Iraq. Questo rafforzamento è un problema perché crea tensione nei rapporti fra gli Stati Uniti e i paesi arabi più la Turchia. Arabi e turchi sono da sempre contrari a entità curde indipendenti, che contribuirebbero alla balcanizzazione della regione. Per la Turchia, che ospita 15 milioni di curdi, si tratta addirittura di una minaccia esistenziale. Una Turchia destabilizzata, in tempi di tensioni Nato con la Russia, è l’ultima cosa che gli americani vorrebbero.

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Pericolo Kurdistan?
Poi c’è il problema dei curdi iracheni. Nonostante i ricorrenti proclami circa l’imminenza di una grande controffensiva irachena-curda-occidentale per la riconquista di Mosul occupata dall’Isis nel giugno scorso, la faccenda si presenta molto più complicata di un semplice problema di addestramento delle truppe e di forniture di armamenti. In un recente reportage dell’inviato di Le Monde nelle aree della piana di Ninive, dove peshmerga e jihadisti danno vita a scaramucce quasi quotidiane, un generale curdo citato con nome e cognome dichiara: «Mosul dipende dal governo iracheno, deve essere liberata da una forza federale, preferibilmente a dominante araba sunnita, non dai curdi». Un anonimo dirigente del Pdk (il partito di Nechirvan Barzani, il primo ministro della regione autonoma del Kurdistan iracheno) rincara la dose: «L’entrata dei peshmerga in Mosul trasformerebbe la guerra contro lo Stato Islamico in un conflitto arabo-curdo che noi non vogliamo».

I curdi sono consapevoli che molti arabi sunniti della provincia di Ninive fiancheggiano l’Isis non per simpatie ideologiche, ma per ostilità al governo a dominante sciita di Baghdad; sono altrettanto consapevoli che la sfera di influenza del Kurdistan non potrà mai comprendere Mosul, città eminentemente araba (e, un tempo, cristiana). Perciò non intendono immischiarsi in una faccenda che non li riguarda e che comporterebbe per loro solo perdite (in vite umane e capitale politico) senza alcun guadagno.

Una forza militare federale disciplinata, qualificata e agguerrita in grado di liberare la capitale della provincia di Ninive, però, è di là da venire. Il rischio è che, per non procrastinare l’operazione oltre l’estate e per evitare che il consolidamento del Califfato si faccia irreversibile, Baghdad lanci all’assalto insieme a qualche reparto dell’esercito soprattutto le milizie sciite del sud, assetate di sangue e di vendetta. I primi rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch sugli eccidi di civili sunniti disarmati da parte di queste formazioni sono già apparsi. La riconquista di Mosul rischia di trasformarsi in una carneficina di civili arabi sunniti accusati di connivenza coi terroristi, e quindi in un disastro di immagine per gli americani e in un grande spot pubblicitario per la causa dell’Isis. Turchia, curdi iracheni e governo di Baghdad non sono le uniche preoccupazioni di Washington per quanto riguarda la guerra contro lo Stato Islamico: nel caso della Giordania la coalizione rischia non solo di perdere un pezzo, ma anche di vedere destabilizzato uno dei più solidi alleati dell’Occidente nel mondo arabo.

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L’astuzia politica
Certamente sulla difensiva dal punto di vista militare dopo i numerosi successi lampo dell’estate, lo Stato Islamico sta ora attingendo alle risorse dell’astuzia politica, e la partita che ha giocato sulla pelle degli ostaggi giapponese e giordano che si trovavano nelle sue mani ne è la prova. Le istituzioni giordane sono uscite indebolite dalla vicenda. Hanno accettato di negoziare senza riuscire a salvare gli ostaggi. Proprio per questo i jihadisti avevano scelto come posta per lo scambio la mancata kamikaze Sajida al Rishawi, sopravvissuta di un attacco di al Qaeda ad Amman nel 2005: la monarchia hashemita ha ceduto subito alle pressioni della famiglia del pilota giordano catturato dall’Isis nel dicembre scorso e dell’opinione pubblica favorevoli allo scambio di prigionieri. Non ha ottenuto la libertà per quest’ultimo, mentre è cresciuto il dissenso popolare nei confronti della partecipazione della Giordania alle operazioni della coalizione anti-Isis.

Per questi e altri motivi, gli Stati Uniti sembrano aver modificato l’ordine delle loro priorità: indebolire o abbattere gli alleati dell’Iran che aspira alla potenza nucleare non è più l’urgenza numero uno; da qualche tempo è stata soppiantata dalla necessità di contenere l’espansione e impedire il consolidamento del Califfato. Per questo anche la linea americana di fronte al conflitto siriano sembra cambiare.

Tags: al qaedaal-nusraamericaBarack ObamaBashar AssadcurdigiordaniaIraqIsisIslamjihadkerrykobanemosulpeshmergaRecep Tayyip Erdoganribelliribelli siriaSiriaStato IslamicoTurchiaUSA
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