Quando le idee diventano tutte uguali, la libertà di esprimerle muore

Di Redazione
01 Settembre 2020
«L'intolleranza che prevale oggi nei campus non è frutto di mancanza di parola, ma conseguenza dell'eccesso di parola», scrive Tony Woodlief sul Wsj
Statua di Cristoforo Colombo abbattuta negli Stati Uniti

Com’è possibile che gli Stati Uniti, patria della libertà di espressione, e soprattutto le università americane siano diventati una roccaforte inespugnabile dove imperano “cancel culture“, “safe space“, antirazzismo intollerante e dove discorsi pieni di buon senso sono oggi banditi come fossero eretici? «L’intolleranza che prevale oggi nei campus non è frutto di mancanza di parola, ma conseguenza dell’eccesso di parola», scrive con una visione originale Tony Woodlief sul Wall Street Journal.

I DANNI DI UNA CONCEZIONE ASSOLUTISTICA DI LIBERTÀ

Nel suo celebre Saggio sulla libertà, John Stuart Mill sostiene che tutti dovrebbero sempre avere diritto di parola «per due ragioni: primo, potrebbero avere ragione. Secondo, anche se hanno torto, l’esercizio richiesto per controbattere quelle cattive opinioni rafforza la capacità della società di ragionare e produrre buoni argomenti. Per questo l’eretico non dovrebbe mai essere cacciato dalla piazza pubblica».

Questa concezione «assolutistica» della necessità della libertà di espressione ha prodotto però delle controindicazioni, prosegue Woodlief. Abbandonando i cittadini a una platea di idee e ideologie in competizione, «abbiamo ironicamente incoraggiato il declino della ricerca della verità in sé. Come predetto da Willmoore Kendall negli anni Cinquanta, una comunità che tratta ogni idea come ultimamente rifiutabile concluderà in ultima istanza che non esiste alcuna verità. E una volta che questo avviene, quella che prima era una “società aperta” diventerà “da un giorno all’altro la più intollerante tra le società e soprattutto una in cui la ricerca della verità non può che fermarsi”».

SENZA VERITÀ NON C’È LIBERTÀ

E quando si ferma la ricerca della verità, e ognuno agisce seguendo come unico criterio ciò che più gli piace, «le idee vengono valutate non per la loro ragionevolezza o coerenza, ma per la loro capacità di stuzzicare le orecchie della folla. Ecco che le verità più dure diventano offensive e l’unico cittadino intollerabile, in un simile regime, è colui che si sente spinto dalla verità in cui crede ad attaccare quelle credenze che ritiene false, pur sapendo che i suoi attacchi destabilizzeranno l’ambiente. Simili critiche diventano troppo dolorose e vengono classificate infine come “violente”. E per il bene della comunità, devono essere escluse».

Così oggi un personaggio come J.K. Rowling subisce una campagna pubblica di linciaggio per aver detto e scritto ad esempio che i soggetti che hanno le mestruazioni si chiamano «donne». «Se nessuna idea può essere squalificata», continua il Wsj, «viene a mancare quel solido terreno necessario a chiamare il male con il suo vero nome». Se tutti coloro che non vedono l’ora di estromettere dal dibattito pubblico chi la pensa in modo diverso sono in posizioni di comando in università e importanti istituzioni è perché chi crede alla libertà di espressione ha concesso loro la possibilità di scrivere le regole.

La soluzione allora non è «pubblicare nuove banalità sull’importanza della libertà di espressione», ma «prendere il principio stesso più seriamente. Mill credeva che anche gli eretici dovessero essere ascoltati, non che dovessero essere messi a capo dei corsi o che gli dovesse essere permesso di redigere codici di espressione dispotici». Per salvare ora la libertà di espressione, specie nelle università, è necessario che i professori ricomincino a praticarla e che «le corti federali la facciano rispettare», visto che il principio è iscritto tra gli standard di tutte le istituzioni educative «e le corti sono solite obbligare le istituzioni a rispettare i propri standard».

Foto Ansa

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