Parla il terrorista di Parigi: «Non mi feci esplodere per umanità»

Di Mauro Zanon
16 Aprile 2022
Prime parole al processo di Salah Abdeslam, unico superstite del commando islamico che colpi la capitale francese nell'attacco nel 2015
Salah Abdeslam, in alto, e Hamza Attou, in una stazione di servizio vicino al confine con il Belgio poche ore dopo la strage, 11 gennaio 2016
Salah Abdeslam, in alto, e Hamza Attou, in una stazione di servizio vicino al confine con il Belgio poche ore dopo la strage, 11 gennaio 2016

Parigi. Sono le 18.15 quando il presidente della Corte d’assise speciale Jean-Louis Périès chiede all’imputato Salah Abdeslam di alzarsi. Vestito con una polo a strisce blu e bianche e un gilet nero, l’unico sopravvissuto degli attentati islamisti del 13 novembre 2015 a Parigi ha deciso di parlare, di raccontare come andò come quella notte, «perché è l’ultima volta che ho l’occasione di farlo» e «tutte le persone qui presenti hanno bisogno delle mie risposte».

Fino a mercoledì, il terrorista franco-marocchino aveva invocato il diritto al silenzio, perché «non si sentiva ascoltato» dai giudici. «È dall’inizio di questo processo (a settembre, ndr) che non si vuole vedere chi sono veramente», ha deplorato Abdeslam, prima di entrare nei dettagli.

«Devi farti esplodere»

Del “progetto” di attacco terroristico, che il 13 novembre 2015 provocò 130 vittime tra lo Stade de France, il Bataclan e alcuni bistrot della capitale, è stato informato da Abdelhamid Abaaoud, il coordinatore del commando della morte. «Mi dice qual è il progetto, ma non gli obiettivi, e che devo indossare una cintura esplosiva e farmi esplodere», ha raccontato durante l’udienza Abdeslam, oggi 32enne. La “missione” affidatagli da Abaaoud lo coglie di sorpresa. «Io dovevo partire in Siria e quando mi ha detto “devi farti esplodere”, è stato uno choc per me. Ma alla fine ho accettato», ha aggiunto.

Dopo aver depositato i tre kamikaze allo Stade de France, l’islamista originario di Molenbeek, periferia multietnica di Bruxelles, si reca verso l’obiettivo che gli è stato indicato dal fratello Brahim: un bar del Diciottesimo arrondissement, a nord di Parigi. «Sono entrato nel bar, ho ordinato una cosa da bere, ho guardato le persone attorno a me e mi sono detto: “No, non mi farò esplodere”. Vedevo la gente attorno a me scherzare, ballare e ho capito che non l’avrei fatto», ha proseguito Abdeslam.

«Avevo paura»

Dopo aver abbandonato l’idea di farsi saltare in aria, riprende la macchina con cui aveva accompagnato i tre terroristi allo Stade de France: macchina che all’improvviso si guasta all’altezza di place Albert-Kahn, nel Diciottesimo arrondissement.

«Ho accostato. Avevo paura e avevo visto passare un’auto della polizia. Ho provato a farla ripartire, ma non ha funzionato», ha testimoniato Abdeslam. E ancora: «Sono uscito dalla vettura. Non ricordo la prima cosa che ho fatto, ma ho camminato, ho acquistato un telefono, ho preso un taxi e ho gettato la cintura esplosiva» (il famoso gilet giallo fluorescente ritrovato in una strada di Montrouge, comune del dipartimento Hauts-de-Seine, il 23 novembre 2015).

«Per umanità, non per paura»

In seguito, Abdeslam trascorre alcune ore a Parigi e nella banlieue circostante, in attesa dei due amici che lo riporteranno a Bruxelles, dove verrà arrestato quattro mesi dopo, il 18 marzo 2016. Il presidente della Corte d’assise speciale ha ricordato al superimputato che la versione raccontata agli amici era la seguente: ho rinunciato a portare a termine la mia “missione” a causa della cintura difettosa.

«Era una menzogna, da cui non sono riuscito a liberarmi nel corso di tutta la mia latitanza e l’ho presa per vera», ha affermato Abdeslam. Ha utilizzato il termine “honte”, vergogna, per giustificare il suo rifiuto di dire la verità agli altri membri della cellula jihadista, ma dal banco degli accusati ha assicurato di aver rinunciato «per umanità, non per paura». Rispetto al fratello, Brahim, che si è fatto esplodere al Comptoir Voltaire, Salah ha affermato di aver rinunciato anche perché non aveva «né l’esperienza militare né religiosa per farlo». Gli altri membri del commando «avevano qualcosa che io non avevo», ha specificato, ossia «la determinazione».

Foto Ansa

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