Bataclan, si apre il processo in Francia. Ma l’allarme terrorismo non è finito

Di Leone Grotti
08 Settembre 2021
Venti imputati, tra cui Salah Abdeslam, dovranno rispondere della strage del 13 novembre 2015 che portò alla morte di 130 persone. Ancora 7.735 potenziali terroristi islamici sono a piede libero
La commemorazione dell'anno scorso della strage del 13 novembre 2015 al Bataclan

La commemorazione dell'anno scorso della strage del 13 novembre 2015 al Bataclan

Si apre oggi a Parigi, in Francia, il processo sulla strage del Bataclan del 13 novembre 2015. I transalpini parlano di evento “storico”, che ha richiesto un’organizzazione imponente e inedita, anche se chi si attende di saperne davvero di più sull’organizzazione e le motivazioni che hanno portato all’attentato più letale della storia del paese potrebbe rimanere deluso.

Il silenzio di Salah Abdeslam

Tutti gli occhi saranno puntati su Salah Abdeslam, 31 anni, l’unico membro sopravvissuto del commando di terroristi islamici che in quella notte di sei anni fa fece 130 morti e più di 430 feriti. Abdeslam è già stato condannato a vent’anni di carcere in Belgio per aver sparato su alcuni poliziotti prima di essere fermato il 18 marzo 2016 a Bruxelles. Sempre in Belgio, alla fine dell’anno prossimo, tornerà alla sbarra per rispondere del suo coinvolgimento nel doppio attentato all’aeroporto e alla metro che fece 32 morti nel marzo 2016.

Abdeslam si trova attualmente rinchiuso nel carcere di Fleury-Mérogis, in isolamento, sorvegliato a vista 24 ore su 24 perché non si suicidi. In questi lunghi anni si è sempre trincerato dietro al silenzio e le uniche parole pronunciate durante il processo del 2018 in Belgio furono queste:

«Mantengo il silenzio, è un mio diritto, il mio silenzio non fa di me né un criminale né un colpevole. Mi difendo così, in silenzio». Aggiunse soltanto: «Non ho paura di voi, non ho paura dei vostri alleati o dei vostri associati. Ripongo tutta la mia fiducia in Allah, questo è tutto, non ho altro da aggiungere».

La tappa al McDonald’s dopo la strage

Secondo un rapporto realizzato dalle autorità belghe, uscito sul Figaro e Le Parisien l’anno scorso, Abdeslam ebbe modo di parlare tra marzo e aprile 2016 in prigione a Bruges con altri terroristi come Mehdi Nemmouche e Mohamed Bakkali. A quest’ultimo disse che aveva dovuto sbarazzarsi della sua cintura esplosiva la notte dell’attentato per non dare nell’occhio. Non è chiaro ancora perché non si sia fatto esplodere come altri jihadisti, però. Prima di tornare in Belgio, confidò ancora Abdeslam, si fermò a un McDonald’s dove ordinò un filet-o-fish. «Ma sei un assassino!», gli rispose ridendo Bakkali. «Puoi dirlo».

Alla sbarra con Abdeslam, ci saranno altri 13 imputati, accusati di avere aiutato nell’organizzazione dell’attentato al Bataclan. Altre sei persone saranno giudicate in contumacia (cinque probabilmente sono morte). Le accuse di cui dovranno rispondere hanno riempito un dossier di quasi 400 pagine, mentre l’insieme dell’inchiesta, durata oltre quattro anni, è stata raccolta in 542 tomi per oltre un milione di pagine.

Nessuna verità sul Bataclan

Ad ogni modo, nessuno si aspetta niente da loro, come dichiarato da Arthur Dénouveaux, rappresentante dell’associazione delle vittime Life for Paris: «Inutile essere concilianti. Ci aspettiamo il minimo. La nostra priorità è che sia fatta giustizia, tutto ciò che arriverà in più sarà un guadagno». Il procuratore nazionale antiterrorismo, Jean-François Ricard, contribuisce a spegnere gli entusiasmi: «Non ho mai visto un solo terrorista spiegarsi completamente davanti a una corte d’assise. O tacciono o usano argomentazioni dilatorie o si accontentano di pronunciare qualche parola ideologica, di principio».

Il processo che inizierà oggi si chiuderà il 25 maggio 2022 dopo 140 giorni di udienza, dal martedì al venerdì. Soltanto durante l’anniversario dell’attentato, il prossimo 13 novembre, le porte del tribunale resteranno chiuse per timore che Abdeslam possa rivendicare il suo gesto. I terroristi saranno giudicati da una corte d’assise composta in modo speciale per l’occasione che si riunirà in una sala del tribunale costruita ad hoc sull’Ile de la Cité per contenere tutte le parti: oltre agli accusati, infatti, 1.800 persone si sono costituite parte civile e gli avvocati presenti alle udienze saranno più di 300, senza contare i giornalisti e il pubblico per un totale di 1.200 posti. La sicurezza all’interno e all’esterno del tribunale sarà «ingente», assicurano i giornali francesi.

In Francia 7.735 potenziali terroristi a piede libero

E proprio la sicurezza è un aspetto chiave del processo, che sarà anche un «evento», registrato dalle telecamere e trasmesso via radio. La Francia non può permettersi di essere sconvolta da un altro attentato proprio mentre cerca di dimostrare la sua superiorità sul terrorismo islamico amministrando la giustizia senza cedere alla vendetta.

I segnali d’allarme non mancano: nella lista dei sorvegliati speciali in Francia per terrorismo (i famigerati “Fiché S”) risultano ancora 7.735 persone. Dietro le sbarre d’Oltralpe sono rinchiusi 467 estremisti e altri 703 detenuti sono sorvegliati da vicino in quanto radicalizzati. Due settimane fa tra i quasi 1.000 afghani accolti dopo la conquista del paese da parte dei talebani, i servizi segreti hanno individuato cinque sospetti jihadisti.

La paura di un altro Bataclan

A inizio mese è stata condannata a sei mesi di carcere una madre di tre figli, convertita all’islam nel 2015 ed ex moglie di un uomo nella lista degli individui a rischio terrorismo, per aver elogiato sui social network per tre mesi consecutivi, dal settembre al novembre 2020, la decapitazione del professore Samuel Paty. «Bravo», si complimentava con il jihadista 18enne russo di origine cecena Abdullakh Anzorov. «Hai fatto quello che molti altri non hanno osato fare. Allahu Akbar». Interrogata, si era giustificata così: «Ho detto quelle parole per colpa dei media che mettevano molta pressione sull’islam. Da allora ho cambiato il mio modo di pensare e mi pento sinceramente di quello che ho pubblicato. Sono disgustata da me stessa, ma a quel tempo ero depressa».

I giudici, riducendo per lei la pena chiesta dal pubblico ministero, si sono dimostrati comprensivi verso la sua storia e hanno creduto al suo “cambiamento”. Un verdetto magnanimo, che però in un momento importante e carico di tensione come questo, molti ritengono decisamente avventato.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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