Oltre il caso Peng Shuai. Non sarà lo sport a cambiare il mondo

Di Roberto Perrone
06 Dicembre 2021
Trattatello sull'ipocrisia suprema di chiedere allo sport di fare da supplente alle mancanze della politica e della società e indignarsi pure se non lo fa
La tennista cinese Peng Shuai durante una partita degli Australian Open nel gennaio 2020 (foto Ansa)

Lo sport cambierà il mondo? A questa domanda epocale c’è solo una risposta: no. Non l’hanno cambiato gli storici boicottaggi degli anni Settanta-Ottanta e non lo muteranno neanche tutte le manifestazioni attuali.

Il moralismo a intermittenza su sport e politica

Ma non è questo il punto, il cuore della vicenda è l’ipocrisia diffusa e il moralismo a intermittenza. Ci arriviamo alla fine di questo breve trattatello sul tema dell’intreccio tra sport e politica. L’ultimo caso in ordine di tempo è quella della Wta, l’associazione delle tenniste professioniste che, per la situazione della tennista Peng Shuai, ha cancellato tutti i tornei (dieci) e anche le Wta Finals (il Master femminile) previsti in Cina. Riguardo alle Finals, c’era un accordo per disputarle a Shenzen fino al 2030. Steve Simon, il presidente dell’associazione ha dichiarato: «In tutta coscienza, non so come potrei chiedere alle nostre giocatrici di giocare nel Paese in cui a Peng Shuai non è permesso di parlare liberamente». Una decisione coraggiosa e importante. Non cambierà nulla in Cina e per la Cina, i prossimi Giochi Olimpici invernali a Pechino nel 2022 si fanno – il Cio ha già detto che preferisce la diplomazia, e ti credo – ma merita comunque un plauso. Fine.

L’era dei grandi boicottaggi

Un passo indietro. Anche lo sport, come la società, è stato travolto dal vento del 1968. Non che fino a quel momento fosse riuscito a fermare le guerre, non che le Olimpiadi non fossero state utili ai regimi più tremendi per mostrare i loro muscoli e la loro forza organizzativa (pensate a Berlino 1936 e molti decenni dopo a Pechino 2008), però fino a quel momento lo sport viveva in una cittadella. Con i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos all’Olimpiade di Città del Messico del 1968, la cittadella venne violata. Poi ci fu la strage degli atleti israeliani a Monaco ’72 da parte dei palestinesi di Settembre Nero e la cittadella divenne un bunker. Improvvisamente lo sport si trasformò in un veicolo per messaggi di altro tipo, quasi sempre politici. Venne l’era dei grandi boicottaggi.

A Montreal ’76 non si presentarono 28 Paesi (27 africani più l’Iraq) per protestare contro il Sudafrica e la politica dell’apartheid. Non si presentò neanche Taiwan che aveva chiesto di partecipare con il nome di China Taipei ottenendo un rifiuto del Cio che non voleva turbare la Cina. Il regime comunista non mandava i suoi atleti ai Giochi dal 1952 ma erano in corso trattative per farlo rientrare (succederà nel 1984) e quindi non bisognava turbare il manovratore. In quello stesso anno, l’Italia del tennis andò in Cile a giocare, e vincere, la finale di Coppa Davis e il popolo si divise, andiamo o non andiamo dall’orrido Pinochet? Panatta e Bertolucci si misero le magliette rosse e conquistarono l’Insalatiera e i nostri cuori.

I moralisti che chiedono allo sport gesti di protesta

Nel 1980 ci fu il picco dell’ipocrisia italiana e non solo. A fine 1979 l’Urss aveva invaso l’Afghanistan e la presidenza di Jimmy Carter, ricordata come una delle più fallimentari della storia, reagì sfruttando lo sport: niente Olimpiade, boicottaggio. Aderirono 64 nazioni. L’Italia, come l’Inghilterra, diede un colpo al cerchio e uno alla botte: divieto di partecipazione agli atleti militari ma via libera a tutti gli altri, senza inno e con la bandiera del Cio. Certo, se fossi stato un’atleta che da quattro anni preparava quel momento e mi avessero detto stai a casa, avrei dato fuori di matto. Fuck Afghanistan. Nel 1984 l’Urss e il blocco del Patto di Varsavia (con l’eccezione della Romania) restituirono il favore a Los Angeles. Poi vennero Gorby, la fine della Guerra Fredda, Nelson Mandela e dal 1988 si sono sempre presentati tutti.

Però, di anno in anno, di manifestazione sportiva in manifestazione sportiva, di luogo in luogo, accorgendosi al momento di quello che accade in certe nazioni del globo, i soliti MISPE (moralisti in servizio permanente effettivo) hanno chiesto allo sport un gesto di protesta, clamoroso e dirompente, un gesto che dovrebbero fare la politica o quella che viene denominata “società civile” ma che viene, invece, domandato, pure con protervia e birignao, allo sport.

Quelli che si inginocchiano e le parole di Leclerc

Nel 2008 a Pechino si scoprì che i comunisti cinesi avevano invaso il Tibet (nel 1950) e che bisognava fare qualcosa. Poi, quando le squadre italiane si presero i petrodollari per andare a giocare la Supercoppa in Arabia Saudita ci fu una breve ma intensa insurrezione per la condizione della donna in quello scatolone di sabbia e petrolio. Passato l’evento, gabbata la protesta.

Da un anno ascolto molti osservatori chiedere agli atleti di inginocchiarsi contro il razzismo, li ascolto tagliare giudizi negativi a chi non lo fa, come se la solidarietà, la partecipazione non fossero sentimenti personali, come se un gesto non dovesse partire dalla propria coscienza, ma fosse imposto dall’alto. Ha detto bene il pilota della Ferrari, Charles Leclerc: «Io combatto il razzismo ogni giorno della mia vita, non ho bisogno di manifestare». Vangelo. Questi gesti hanno il vuoto dentro. Fateli, ma non imponeteli per legge morale e soprattutto non pensate che siano sufficienti.

Vai avanti tu, sport

Le iniziative hanno senso se cambiano la vita di chi le fa, non hanno senso solo perché qualcuno le fa. Pensiamo a quello che è successo nel weekend in cui i calcio ha dato il suo contributo contro la violenza sulle donne. Finiti gli appelli, alcuni figuri hanno molestato una giornalista. Il molestatore principale si è giustificato: «Era solo una goliardata». Probabilmente manco si era accorto che era la giornata contro la violenza sulle donne.

Non è che questi gesti, che questi messaggi non siamo importanti, ma i MISPE pensano che producano un cambiamento. Non è così. E in ogni caso l’ipocrisia suprema è quella di chiedere allo sport di fare da supplente alle mancanze della politica e della società e indignarsi pure se non lo fa. L’ipocrisia è pretendere che sia sempre qualcun altro a muoversi. Vai avanti tu. Non funziona così: vado avanti io, questo bisogna chiedere. A se stessi.

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