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«Non si salva il mondo dal di fuori». La “Chiesa missionaria” di papa Francesco spiegata da Paolo VI

Per convertire l'uomo, scriveva Montini nel 1964, «bisogna accostarlo e parlargli. Dio non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma affinché sia salvato per mezzo di lui»

Piero Gheddo
25/10/2013 - 17:14
Chiesa
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Paolo VI e il Concilio hanno lanciato il dialogo interreligioso con il decreto Nostra Aetate e l’enciclica Ecclesiam Suam (1964), due documenti da riprendere per leggerli e studiarli in riferimento non solo alle missioni (dove la Chiesa dialoga con le grandi religioni), ma al nostro Occidente cristiano, per la Nuova Evangelizzazione, che vuol riportare alla fede e alla vita cristiana i moltissimi battezzati che in chiesa non ci vengono più. L’Ecclesiam Suam presenta la Chiesa e la missione in una luce diversa da quanto noi immaginiamo:

1) Nella visione tradizionale la Chiesa ha il pieno possesso della Verità, i missionari sono mandati a tutti gli uomini per annunziare e convertire a Cristo. È una visione giusta ma statica, non dinamica.

2) Per Paolo VI la Chiesa è in cammino per raggiungere la pienezza della Verità, che noi uomini non conosciamo mai fino in fondo, perché Dio supera infinitamente la nostra mente e il nostro cuore. Nel corso dei secoli, lo Spirito Santo guida la Chiesa a fare passi in avanti verso la piena comprensione della Parola di Dio e del Vangelo.

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3) Ecco il significato della “missione alle genti” e dell’annunzio, che non è una imposizione o una proclamazione, ma un dialogo con l’altro, per capirlo e farsi capire, per testimoniargli con la nostra vita e trasmettergli con la nostra povera parola la fede che salva; ma nel tempo stesso, ascoltarlo per conoscere i “semi del Verbo” che Dio ha messo in tutti gli uomini e conoscere i suoi valori religiosi e umani che il suo popolo e la sua civiltà hanno maturato. La missione non è solo un dare, ma un dare e un ricevere nel dialogo fraterno.

Tutto questo ha origine nella Trinità stessa, che salva l’umanità attraverso il “dialogo della salvezza” (“colloquium salutis”). Per Paolo VI il dialogo è un sinonimo di missione. Nel confronto e dialogo con i membri delle religioni non cristiane la Ecclesiam Suam afferma: «Noi non possiamo evidentemente condividere queste varie espressioni religiose», tuttavia non si può non avere per loro il «rispettoso riconoscimento dei valori spirituali e morali» che posseggono e occorre collaborare con esse «negli ideali che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura».

Nell’enciclica il dialogo è lo strumento attraverso il quale giungere insieme tra i dialoganti ad una più profonda comprensione della Parola di Dio. Per Paolo VI, il dialogo della Chiesa significa una totale e continua apertura a chiunque sia disposto ad ascoltare il messaggio di Cristo; è la natura stessa della Chiesa, nata per evangelizzare tutti gli uomini e le culture, che deve entrare in dialogo, cioè nel “colloquium salutis” (dialogo della salvezza), con tutti gli uomini.

Ho riletto l’Ecclesiam Suam con crescente ammirazione per Paolo VI, che parla del dialogo con le grandi religioni, ma anche del «dialogo fra la Chiesa ed il mondo moderno» (n. 15), cioè con i non credenti, gli agnostici, gli atei, che sono soprattutto nell’Occidente un tempo “cristiano”; e poi delinea le virtù necessarie, le modalità, lo spirito del dialogo su temi religiosi. Leggendo l’Ecclesiam Suam, pensavo a Papa Francesco, che sta realizzando l’insegnamento di PaoloVI e del Concilio, finora poco recepiti nella Chiesa. Questa la provvidenziale novità di Francesco, che vuole “una Chiesa dialogante”. La Ecclesiam Suam scrive: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (n. 67). E il mondo, «ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, bisogna accostarlo e parlargli. Dio non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma affinché sia salvato per mezzo di lui (Giov. 3,17)» (nn. 70, 71).

«La Chiesa può rapportarsi col mondo rilevando i suoi mali, anatematizzandoli e muovendo crociate contro di essi» (n. 80); ma oggi ci vuole il dialogo, «suggerito dall’abitudine ormai diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni, nonché dalla maturità dell’uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile dall’educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo» (n. 80). «Questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale» (n. 81). «Nel dialogo si scopre come diverse sono le vie che conducono alla luce della fede, e come sia possibile farle convergere allo stesso fine. Anche se divergenti, possono diventare complementari, spingendo il nostro ragionamento fuori dei sentieri comuni e obbligandolo ad approfondire le sue ricerche, a rinnovare le sue espressioni. La dialettica di questo esercizio di pensiero e di pazienza ci farà scoprire elementi di verità anche nelle opinioni altrui, ci obbligherà ad esprimere con grande lealtà il nostro insegnamento e ci darà merito per la fatica d’averlo esposto all’altrui obiezione, all’altrui lenta assimilazione» (n. 86).

L’enciclica di Paolo VI è profonda e profetica. Ci sono passaggi significativi: «Non si salva il mondo dal di fuori», dice il Papa e cita Gesù che si è fatto uomo per salvarci, partecipando alla vita degli uomini del suo tempo; così chi evangelizza deve «condividere, senza porre distanza di privilegi o diaframma di linguaggio incomprensibile… Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l’esempio e il precetto che Cristo ci lasciò» (n. 59).

piero-gheddo-dinajpur-santal-bangladeshE poi parla dei rischi del dialogo… «L’arte dell’apostolato è rischiosa. La sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in una attenuazione, in una diminuzione della verità. Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede. L’apostolato non può transigere con un compromesso ambiguo rispetto ai princìpi di pensiero e di azione che devono qualificare la nostra professione cristiana. L’irenismo e il sincretismo sono in fondo forme di scetticismo rispetto alla forza e al contenuto della Parola di Dio, che vogliamo predicare. Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo» (n. 91). «E solo chi vive in pienezza la vocazione cristiana può essere immunizzato dal contagio di errori con cui viene a contatto» (n. 92).

Oggi è tramontata «l’epoca della cristianità», quando fede e civiltà, Chiesa e Stato, mondo religioso e mondo laico erano strettamente collegati e collaboravano. Oggi la Chiesa vive in un mondo secolarizzato, con cristiani la cui fede è vacillante e quelli che si dichiarano senza religione: in Polonia sono il 9,3 per cento, in Italia il 14-15 per cento (circa 10 milioni!), in Spagna il 19,5 per cento, in Germania il 21, in Francia il 27, in Inghilterra il 31! Anch’essi sono creati da Dio e redenti da Cristo; anch’essi vanno evangelizzati e hanno dei valori morali e spirituali.

La pista per la Nuova Evangelizzazione è già aperta, ma il cammino per una “Chiesa dialogante” è ancora lungo. Il “dialogo della salvezza” vale anche per le diocesi e parrocchie della nostra Italia. Ma finora si va avanti col faticoso tran-tran tradizionale di scarsa apertura e dialogo con chi è fuori del gregge di Cristo, anche perché i preti, come diceva un parroco di Milano al cardinal Martini: «Ringrazio il cielo che vengono in chiesa solo il 15 per cento dei miei parrocchiani, perché se venissero tutti, mi sarebbe impossibile portare avanti la mia parrocchia». Ma la missione della Chiesa non riguarda solo i preti e le suore. Papa Francesco insiste nel dire che vuole “una Chiesa missionaria” e questo, come nelle missioni, riguarda tutti i battezzati credenti e praticanti! Ecco la “rivoluzione” che il Concilio e i Papi propongono e che Francesco porta alla ribalta nel suo modo simpatico ed esplosivo.

I nostri vescovi dicono e scrivono spesso che “abbiamo molto da imparare dalla Chiesa missionaria”, però sono dichiarazioni che non trovano applicazioni concrete nella pastorale ordinaria di diocesi e parrocchie. Adesso arriva dalle missioni Papa Francesco che in modo del tutto imprevisto spiazza tutti col suo modo di agire e di parlare e conquista i cuori, anche di molti non cristiani.  Non c’è alcuna rottura fra Francesco, Benedetto, Giovanni Paolo I e II, Paolo VI, eccetera, ma Francesco porta la novità del metodo missionario.  Nel nostro mondo post-cristiano dove, mi dicono parroci e viceparroci, che circa la metà dei giovani non sanno più nemmeno il Padre Nostro e l’Ave Maria, Papa Francesco è mandato dallo Spirito Santo, porta la Chiesa a livello della gente comune, parla a braccio (a rischio di dire anche cose poco esatte!) e provoca gli ascoltatori, dice che il Padre è misericordioso e perdona tutti, provoca gli ascoltatori, dice che vuole «una Chiesa povera per i poveri», spariglia le carte e conquista i cuori.

Insomma a me pare che sia all’inizio di un cammino che cambierà il volto della Chiesa, casa di tutti e per tutti. Non sappiamo come, non sappiamo dove andrà a finire, non sappiamo niente. Noi ci fidiamo dello Spirito Santo, che ha preso Jorge Mario Bergoglio «dalla fine del mondo» e l’ha mandato nelle nostre antiche Chiese d’Europa quasi come una sfida al nostro modo di concepire la parrocchia, la pastorale e la vita cristiana. Papa Francesco è davvero provvidenziale. Ho avuto grandi esperienze missionarie in ogni parte del mondo e ho toccato con mano quanto le vie di Dio sono diverse dalle nostre! A noi credenti spetta pregare, dare buon esempio, seguire con amore Papa Francesco e fidarci dello Spirito Santo. Certamente anche facendo le nostre osservazioni, ma senza accanimento critico, senza dividere il “Corpo mistico di Cristo”, senza diminuire l’ondata benefica  che questo Papa sta seminando anche nel mondo non cristiano: una cordiale attenzione e simpatia per Cristo e la sua Chiesa.

Papa Francesco è il vento nuovo dello Spirito che soffia forte, perché viene da Chiese giovani che noi visitiamo ma non comprendiamo. Ad esempio, quando Francesco parla di una «Chiesa povera tra i poveri», noi pensiamo ai nostri poveri, lui pensa a quelli del suo mondo: l’Argentina (estesa sette volte l’Italia con 40 milioni di abitanti) ha un Pil medio pro-capite di 11.000 dollari, l’Italia 37.000. In Africa e Asia, le differenze con noi diventano abissali. Quando parlo alla gente, dico sempre che noi siamo i privilegiati dell’umanità, perché abbiamo ricevuto il dono della fede e siamo nati in Italia dopo duemila anni di cristianesimo! Gran parte dell’umanità vive ancora nell’Antico Testamento, come il popolo ebraico prima di conoscere Gesù!

Tratto dal blog di padre Piero Gheddo

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