

Uno che aveva capito subito che cosa fosse capitato l’11 settembre e quale fosse la sfida cui eravamo chiamati, era il nostro collaboratore Lorenzo Albacete, il «Chesterton del nostro villaggio», come ebbe a scrivere Luigi Amicone il giorno della sua scomparsa.
Monsignore a New York, Albacete scriveva per il New York Times e per Tempi, curando ogni settimana una rubrica fissa in cui – sempre con grande ironia e mai con superficialità – commentava il brulicare caotico del mondo, trovando sempre uno spunto per rimettere le cose nel giusto ordine e secondo la corretta prospettiva.
Rileggere oggi i suoi articoli scritti dopo l’11 settembre aiuta a inserire nel dibattito pubblico un elemento spesso frainteso o negato. Al contrario di quel che si scriveva allora e, purtroppo, dopo vent’anni, anche oggi, Albacete ebbe subito chiaro che la sfida lanciata dall’islamismo al nostro mondo era una sfida “religiosa”, cioè al senso del vivere. Ed era questo livello che andava impostata la discussione.
Il primo commento che scrisse a caldo, nelle ore immediatamente successive all’attacco e che apparve su Tempi il 13 settembre 2001, già inquadrava la questione: “La speranza dell’America è ancora in piedi”.
In esso, Albacete notava che «l’attacco terroristico scatenato oggi contro gli Stati Uniti d’America è stato più simbolico che militare». I terroristi avevano sbagliato obiettivo, scriveva, perché hanno identificato l’America con i suoi centri di potere finanziario (Twin Towers) e militare (Pentagono), ma il vero simbolo del paese è la statua della libertà, emblema di quella «libertà religiosa che questi terroristi “religiosi” mai saranno in grado di comprendere».
Per Albacete, dunque, era stato chiaro sin dal principio che ci trovavamo di fronte a un nemico che, a partire dal linguaggio («ci definiscono il “Grande Satana”»), sfidava il mondo occidentale con il suo «odio di tipo religioso».
Il tema tornava spesso nelle corrispondenze di Albacete. Solo qualche anno dopo, lo riprese in questo articolo (“Educare il cuore contro il terrore”):
«Nel momento stesso in cui gli aeroplani si sono schiantati contro le Torri Gemelle, per tutti noi a New York fu subito evidente che era accaduto qualcosa che avrebbe cambiato il nostro modo di vivere, toccando il punto più profondo della nostra coscienza, la nostra visione della realtà e le nostre convinzioni sul “significato” della vita: insomma, toccando il nostro “senso religioso”. Forse non l’abbiamo espresso in questo modo, ma tutti noi sapevamo che nel nostro mondo si era aperto un abisso da cui si vedeva emergere un orrore indicibile. La parola “terrore” è un termine religioso: esprime la reazione dell’uomo di fronte all’assolutamente incontrollabile. Quindi, il “terrorismo” è un atto religioso; per dirlo in termini più precisi, ci colpisce nel nostro senso religioso. Il modo più adatto di affrontarlo e di superarlo è perciò proprio a questo livello».
Cosa significava? Per il monsignore, voleva dire che noi dovevamo ribaltare la logica che muoveva i terroristi. Se loro dicevano che «amavano la morte più di quanto noi amassimo la vita», noi occidentali dovevamo mostrare loro che il nostro amore per la vita era in grado di sconfiggere i loro tenebrosi intenti mortiferi.
Ce la stavamo facendo? Non molto, secondo Albacete.
«Il momento del primo anniversario dell’11 settembre, avevo appena terminato di lavorare alla preparazione di un documentario televisivo sulle “ripercussioni religiose” degli attentati: appariva evidente che, sebbene in molte persone l’esperienza originaria delle implicazioni religiose del nuovo terrorismo fosse diminuita, rimaneva ancora molto forte tra i parenti delle vittime e nelle persone che avevano personalmente assistito all’evento. In occasione del secondo anniversario, un altro programma televisivo cui ho partecipato mi ha dimostrato che la consapevolezza di questa dimensione del problema era praticamente scomparsa, e gli attacchi venivano spiegati unicamente in termini politici, economici, sociologici e così via. Soltanto i “protestanti evangelici” sembravano considerarlo ancora in termini religiosi, ma, sfortunatamente, potevano esprimere la loro esperienza soltanto in toni fideistici e moralisti».
Albacete non era un ingenuo pacifista (posizione comoda che, anche allora, andava molto di moda), ma un “realista” col senso del destino. Sapeva che ogni azione umana non poteva essere guidata solo dall’istinto di vendetta, magari abbellito di mistica guerriera, o da ideologie ireniste adatte a lavarsi la coscienza, ma doveva sempre tenere conto di tutto: politica, economia, sociologia e (anche e soprattutto) “religione”, intendendo con questo termine non tanto la precettistica quanto l’identificazione di un valore per cui vale la pena vivere e morire.
«Se il terrorismo è l’affermazione che l’ultima parola sulla vita delle persone umane è la morte e se il suo orrore consiste nella negazione della realtà e del valore assoluto della vita di ogni singolo individuo, allora può essere sconfitto soltanto affermando la bontà della vita umana in modo ancora più forte della negazione dei terroristi. Dobbiamo dimostrare che l’amore per la vita è più forte del loro amore per la morte. Ma dobbiamo dimostrarlo non con le parole, bensì con i fatti, testimoniandolo con la nostra stessa vita».
Così, in quello che forse può essere definito uno degli articoli più inauditi e sorprendenti scritti da Albacete su Tempi (“Cosa direbbe sant’Agostino a Bush”), egli arrivava ad affermare che il vero punto di ambiguità sulla “missione” di cui l’America si sentiva portatrice era la “libertà”.
«Non è affatto vero ciò che sostiene il presidente [Bush], ossia che “la migliore speranza per la pace è la diffusione della libertà” in quanto la libertà umana è “la sola forza della storia che può mettere fine all’odio e ai risentimenti, smascherare le menzogne dei tiranni e ricompensare le aspirazioni delle persone oneste e tolleranti”. La libertà può essere tanto uno strumento di pace quanto di violenza. La sola forza che può salvare il mondo è quel genere di amore che viene chiamato carità, che si realizza quando il fascino dell’atto redentivo della grazia si compie attraverso l’accettazione del fascino di Cristo».
Vent’anni dopo l’11/9 dobbiamo constatare questo: abbiamo vinto una guerra giusta in poche settimane contro i terribili talebani, ma non siamo stati capaci in vent’anni di “vincere” l’altra guerra, cioè quella che non si combatte con le armi, ma conquistando le menti e i cuori.
Abbiamo pensato che bastasse insegnare loro le procedure democratiche perché, assaporata questa libertà, avviassero in pochi anni un processo che in Occidente è durato secoli. Soprattutto abbiamo pensato che la libertà non avesse altro fondamento che se stessa, quando invece essa è espressione di una concezione dell’esistenza che “ama la vita più della morte”.
Foto Ansa
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