EDUCARE IL CUORE CONTRO IL TERRORE

Di Lorenzo Albacete
16 Settembre 2004
Scrivo da Norman, Oklahoma, dove si trova la University of Oklahoma

Scrivo da Norman, Oklahoma, dove si trova la University of Oklahoma, che mi ha invitato per fare una conferenza sul libro di don Giussani, Il senso religioso. Dato che la conferenza era fissata subito dopo il terzo anniversario dell’11 settembre, il cappellano cattolico dell’università mi ha invitato a celebrare una Messa per le vittime degli attentati terroristici. Mi è stato fatto notare che, trovandosi l’Università proprio nel centro della cosiddetta Bible Belt, l’ambiente era fortemente pro-Bush e che la gran parte degli studenti aveva un background protestante evangelico. Questi studenti considerano la guerra in Irak e la “guerra contro il terrorismo” l’espressione concreta della missione americana di guidare il mondo nella battaglia per la libertà cristiana. Nel mio sermone, ho parlato della mia esperienza il giorno degli attacchi, e in ogni successivo anniversario. Nel momento stesso in cui gli aeroplani si sono schiantati contro le Torri Gemelle, per tutti noi a New York fu subito evidente che era accaduto qualcosa che avrebbe cambiato il nostro modo di vivere, toccando il punto più profondo della nostra coscienza, la nostra visione della realtà e le nostre convinzioni sul “significato” della vita: insomma, toccando il nostro “senso religioso”. Forse non l’abbiamo espresso in questo modo, ma tutti noi sapevamo che nel nostro mondo si era aperto un abisso da cui si vedeva emergere un orrore indicibile. La parola “terrore” è un termine religioso: esprime la reazione dell’uomo di fronte all’assolutamente incontrollabile. Quindi, il “terrorismo” è un atto religioso; per dirlo in termini più precisi, ci colpisce nel nostro senso religioso. Il modo più adatto di affrontarlo e di superarlo è perciò proprio a questo livello. Al momento del primo anniversario dell’11 settembre, avevo appena terminato di lavorare alla preparazione di un documentario televisivo sulle “ripercussioni religiose” degli attentati: appariva evidente che, sebbene in molte persone l’esperienza originaria delle implicazioni religiose del nuovo terrorismo fosse diminuita, rimaneva ancora molto forte tra i parenti delle vittime e nelle persone che avevano personalmente assistito all’evento. In occasione del secondo anniversario, un altro programma televisivo cui ho partecipato mi ha dimostrato che la consapevolezza di questa dimensione del problema era praticamente scomparsa, e gli attacchi venivano spiegati unicamenti in termini politici, economici, sociologici e così via. Soltanto i “protestanti evangelici” sembravano considerarlo ancora in termini religiosi, ma, sfortunatamente, potevano esprimere la loro esperienza soltanto in toni fideistici e moralisti. La risposta dei cattolici, a mio giudizio, era diversa e il terzo anniversario era l’occasione per esprimerla.
Se il terrorismo è l’affermazione che l’ultima parola sulla vita delle persone umane è la morte e se il suo orrore consiste nella negazione della realtà e del valore assoluto della vita di ogni singolo individuo, allora può essere sconfitto soltanto affermando la bontà della vita umana in modo ancora più forte della negazione dei terroristi. Dobbiamo dimostrare che l’amore per la vita è più forte del loro amore per la morte. Ma dobbiamo dimostrarlo non con le parole, bensì con i fatti, testimoniandolo con la nostra stessa vita. Ho parlato agli studenti universitari di un umile vescovo che, pochi giorni dopo gli attentati, a differenza di tutti gli altri leader religiosi presenti alla commemorazione nello Yankee Stadium, aveva evitato ogni spiegazione teologica e religiosa e aveva semplicemente recitato un Ave Maria. Ho parlato della Via Crucis lungo il ponte di Brooklyn, che ha attratto migliaia di persone di ogni fede religiosa e anche quelle che non ne avevano alcuna. Ma il segno più importante era proprio ciò che stavamo facendo in quel momento: inserire ciò che era accaduto nell’evento della vittoria di Cristo sulla morte attraverso la celebrazione dell’Eucaristia.
Questo rito cambia il cuore dell’uomo; rende possibile un nuovo modo di vivere la nostra condizione umana in grado di trasformare il mondo e produrre una cultura della vita anziché il nichilismo della cultura della morte. Per fare un esempio, ho parlato della parabola del figliol prodigo e del suo insegnamento sul perdono e la misericordia di Dio. Non si può costruire una vera cultura della vita senza la potenza della misericordia e del perdono. Ma è una cosa che non si può tradurre in programmi politici o in strategie militari, che esprimeranno sempre l’ambiguità dell’incapacità di garantire la pace desiderata dai nostri cuori. Non possiamo far coincidere nessuna di queste strategie con la “risposta cristiana”. Ma possiamo dare testimonianza del fatto che l’insegnamento di Cristo è quello di educare il cuore ad essere guidato dalla pace che Lui soltanto può dare.

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