In Francia una donna può morire perché donna, come in Afghanistan
Parigi. Shaïna amava la Francia e le sue libertà: voleva vivere all’occidentale. I genitori, originari delle Isole Mauritius e musulmani moderati, non le avevano imposto nulla a Créil, comune del dipartimento dell’Oise: l’avevano cresciuta alla francese. Ma essere “libera” e “vivere all’occidentale” non è permesso in certe cités, i quartieri popolari ad alto tasso di immigrazione arabo-africana, dove l’islam ha sostituito la République. La sera del 25 ottobre 2019, il ragazzo di cui Shaïna si era invaghita e da cui aspettava un figlio, Omar, la denuda, la cosparge di benzina e le dà fuoco. Ecco le parole dell’assassino a un altro detenuto del centro penitenziario di Liancourt: «Mi ha risposto sorridendo, che era lì perché aveva ucciso la sua ragazza, una puttana che aveva messo incinta, e non voleva che sua madre lo sapesse perché era musulmano».
Inchiesta nei territori perduti della République
È questa storia raccapricciante che la giornalista di Charlie Hebdo Laure Daussy riscostruisce in un’inchiesta appena uscita per le edizioni Les Échappes, La Réputation. Enquête sur la fabrique des “filles faciles”. Raccogliendo le testimonianze delle adolescenti e degli amici che hanno conosciuto Shaïna, uccisa barbaramente a 15 anni, l’autrice ha messo a nudo quella che Charlie Hebdo ha definito “la costruzione dell’impensabile”: in un contesto di rigorismo religioso che vieta a delle ragazze, in Francia, di vivere liberamente e di vestirsi secondo i loro desideri, i ragazzi musulmani vegliano affinché vengano rispettati i precetti di Allah, decidendo chi ha una buona o una pessima “réputation”. Shaïna faceva parte della seconda categoria, “colpevole” di voler essere come le sue compagne, truccarsi come le sue compagne, mettersi una minigonna come le sue compagne.
Le adolescenti coetanee di Shaïna con cui Laure Daussy ha avuto un colloquio per comprendere meglio ciò che accade in quei «territori perduti della République» (Georges Bensoussan) hanno affermato di non aver mai sentito parlare del #MeToo, e che se portano il velo non è per sottomissione all’islam, bensì per non essere importunate dagli uomini di confessione musulmana: per essere lasciate in pace. L’autrice, per la sua inchiesta, ha provato a chiedere un contributo ad alcune sue amiche femministe, che hanno però minimizzato, dicendo che «le violenze sessuali e i femminicidi succedono in qualsiasi milieu». Poi, ha provato a intervistare delle specialiste delle questioni di genere: ricevendo anche in questo caso una porta in faccia, perché non volevano spezzare la favola del vivre-ensemble, a cui credono soltanto loro, arroccate nei loft di Saint-Germain-des-Prés.
Shaïna, punita perché diventata donna indipendente
«La storia di Shaïna è la storia di una vittima al cubo. È stata stuprata a 13 anni, picchiata due anni dopo perché ha sporto denuncia contro i suoi stupratori ed è stata bruciata viva in una baracca perché incinta. Non è un fatto di cronaca, ma di società, che dice molte cose sulla condizione delle donne nelle cités», ha dichiarato al Monde Negar Haeri, avvocato della famiglia. «Non sono velata, fumo, ma sono anche musulmana. Non mi capacito del fatto che in Francia una donna possa morire perché donna, come accade in Afghanistan. È stata punita dai ragazzi del quartiere. Voleva essere libera e l’hanno uccisa per questo motivo», ha aggiunto la madre di Shaïna.
È stata punita perché, per i ragazzi delle cités, era diventata una “fille facile”, dove per facile si intende una ragazza libera e indipendente. Ciò non è consentito in quelle zone che la sinistra progressista continua a idealizzare, ma dove in realtà non mette più piede. Scrive Charlie Hebdo: «Laure Daussy ricorda con coraggio che, per paura di discriminare le cités e di stigmatizzare i musulmani, viene perdonato il loro sessismo criminale (…) la dominazione maschile giustificata dalla religione».
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