Noi uomini e i nostri animali. Gli unici occhi che ancora ci guardano

Di Marina Corradi
27 Ottobre 2014
La signora sul tram si affeziona subito al mio cane. «Ne avevo uno che gli somigliava, è morto… Ora, quando rincaso, non c’è più nessuno che mi aspetti»

Milano. Salgo con il mio cane su un tram della linea 1. Alle dieci del mattino la vettura è semivuota. La giovane signora che timbra il biglietto dopo di me mi si siede accanto. O meglio, accanto al mio cane, che subito prende a accarezzare. Gli parla teneramente, come si parla ai bambini. Poi, distrattamente, si rivolge a me: «Come si chiama?». Il cane, naturalmente, intende.

Sale un’altra signora, anziana, i capelli tinti di rosso, e lei pure sorride al cane. «Che carino, che dolce che sei, come ti chiami?», gli fa. Io mi sento in dovere di rispondere in sua vece, giacché lui non parla. Ma la vecchia signora con la borsetta ben stretta fra le mani – come chi si senta, nella città, sola e indifesa – al mio cane si sta proprio affezionando. «Ne avevo uno che gli somigliava, è morto l’anno scorso, poveretto… Ora, quando rincaso, non c’è più nessuno che mi aspetti».

Allora mi viene in mente l’amico sacerdote che mi ha raccontato di quando era andato, un Natale, a benedire le case. E una vecchia signora, indicandogli il gatto sul divano, gli aveva detto: «Lei sa, reverendo, che quelli sono gli unici occhi che mi guardano, la sera?».

L’unico che ti aspetta, l’unico che ti guarda in case silenziose. Capisco perché si voglia anche troppo bene, oggi, ai nostri animali. È un amore direttamente proporzionale al vuoto e alla solitudine, fra noi.

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