La tregua tra Hezbollah e Israele è fragile, ma resta un passo avanti
Hezbollah e Israele hanno accettato il cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti in Libano. Nonostante l’opposizione a Tel Aviv dei parlamentari di estrema destra, guidati dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, e dei sindaci delle città del nord di Israele, il Gabinetto di sicurezza ha approvato la tregua. Il fragile accordo interrompe, almeno temporaneamente, la guerra tra Israele e Hezbollah che va avanti dall’8 ottobre 2023, quando in solidarietà con Hamas il “Partito di Dio” iniziò a bersagliare il nord dello Stato ebraico con lanci di razzi quotidiani, che obbligarono Tel Aviv a evacuare circa 60 mila residenti.
Dopo un anno, il 23 settembre scorso, Israele ha lanciato una campagna di raid (Operazione Frecce del nord), culminata con l’uccisione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e con l’invasione del sud del Libano, iniziata l’1 ottobre e conclusa simbolicamente ieri, con le truppe israeliane che hanno raggiunto il fiume Litani per la prima volta da 20 anni.
Dall’8 ottobre 2023, nel conflitto tra Israele e Hezbollah sono morti 3.768 libanesi, il 25 per cento dei quali donne e bambini, 15.700 sono rimasti feriti e 1,2 milioni sfollati. In Israele sono morte invece 78 persone. Tel Aviv sostiene di aver ucciso 2.000 miliziani di Hezbollah.
Il fragile accordo tra Israele e Hezbollah
L’accordo prevede un cessate il fuoco di 60 giorni e si basa sulle condizioni delineate nella Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite, che ha posto fine alla guerra tra Israele ed Hezbollah nel 2006. Tra le altre cose, prevede che i terroristi alleati dell’Iran ritirino uomini e armi a nord del fiume Litani, a circa 30 km dalla Linea blu, il confine non ufficiale tra Libano e Israele. Tel Aviv ritirerà invece le sue truppe dal sud del paese dei cedri.
Durante i due mesi di interruzione delle ostilità, l’esercito libanese prenderà il controllo dell’area a sud del fiume Litani con l’aiuto dei peacekeeper dell’Onu e controllerà che non arrivino nuove armi a rimpinguare gli arsenali di Hezbollah.
Le tre ragioni di Netanyahu
Il Libano aspettava con ansia il cessate il fuoco, dovendo fare i conti con la ricostruzione di intere aree del paese, la ricerca di una sistemazione per 1,2 milioni di sfollati, una crisi economica che non sembra conoscere fine e uno stallo politico che mina alla radice le istituzioni del paese.
Anche Hezbollah – decimato dall’operazione cercapersone, dall’uccisione di Nasrallah e dagli attacchi israeliani più devastanti di sempre – ha tutto l’interesse a firmare il cessate il fuoco.
Non era scontato invece che Israele accogliesse la mediazione americana portata avanti da Amos Hochstein. Netanyahu ha elencato tre ragioni: «Dobbiamo concentrarci sulla minaccia iraniana; dobbiamo rafforzarci e riarmare i nostri eserciti; e poi dobbiamo isolare Hamas».
Tutti i dubbi di Israele
Contrariamente ad altre occasioni, il leader estremista Ben Gvir non ha minacciato di far saltare il governo in caso di firma del cessate il fuoco. Però ha definito l’accordo «un grave errore» e «un’occasione persa di sradicare Hezbollah». Il suo scetticismo è condiviso da molti nel governo di Benjamin Netanyahu e non è un caso che, a quanto scrivono i giornali israeliani, Tel Aviv abbia accettato di firmare soltanto dopo aver ottenuto da Washington una rassicurazione scritta sul fatto che Israele potrà tornare a bombardare Hezbollah in caso di violazione dell’accordo.
Se infatti, si chiedono in tanti in Israele e non solo, l’esercito libanese non è stato in grado di far rispettare la risoluzione 1701 negli ultimi 18 anni, perché dovrebbe riuscirci ora? Non è un mistero che l’esercito regolare non abbia né i fondi, né i soldati, né l’equipaggiamento necessari a opporsi a Hezbollah.
La Bbc si chiede anche se l’esercito libanese accetterà mai di affrontare Hezbollah, se necessario. Secondo fonti diplomatiche, «questa volta le autorità libanesi hanno la volontà di agire diversamente rispetto al passato» e schiereranno almeno 5.000 truppe nel sud. Inoltre, il cessate il fuoco sarà garantito da una commissione guidata dagli Stati Uniti, che includerà sicuramente anche la Francia. «L’accordo è studiato perché la tregua sia permanente», ha dichiarato ieri Joe Biden. «Se Hezbollah violerà l’accordo, Israele avrà diritto alla difesa»
«Questa è una “resa” totale»
«Non capisco come siamo potuti passare dalla “vittoria totale” alla “resa totale”», ha dichiarato citando lo slogan di Netanyahu il sindaco di Kiryat Shmona, Avichai Stern. Anche David Azuolay, primo cittadino di Metula, altra città israeliana situata al confine con il Libano, ha criticato aspramente la «resa».
«Questo accordo non fa che accelerare un nuovo 7 ottobre, questa volta nel nord del paese e questo non deve accadere», ha aggiunto il sindaco di Kiryat Shmona, Stern. «Dove torneranno i nostri cittadini? A una città distrutta senza sicurezza, senza un orizzonte?».
Il ritorno dei 60 mila israeliani evacuati dal nord di Israele non è previsto immediatamente, ma potrebbe richiedere mesi per verificare che il cessate il fuoco venga effettivamente rispettato da Hezbollah.
Strage a Beirut
I giorni che hanno preceduto la firma dell’accordo sono stati i più sanguinosi dall’inizio della guerra in Libano. Sabato, poco prima dell’alba, Israele ha colpito senza dare il consueto preavviso un quartiere centrale di Beirut, Basta Fawqa. Nel raid aereo sul quartiere densamente popolato è stato raso al suolo un condominio di otto piani e sono morte 29 persone, tra cui tre bambini e due anziani in sedia a rotelle.
«Molti libanesi erano scappati in questo quartiere per essere al sicuro», ha dichiarato all’agenzia Reuters Amayrad, una donna che ha sempre vissuto nel quartiere. «Questo quartiere è sempre stato al sicuro: non ci sono armi, non ci sono combattenti, non c’è niente. Ora sono stati uccisi nel sonno. Erano innocenti».
Nell’attacco sono state sganciate bombe in grado di penetrare i bunker, segno che, secondo Israele, sotto l’edificio si nascondeva un covo di Hezbollah. I residenti hanno negato categoricamente questa possibilità.
Lanci di razzi da parte di Hezbollah
Hezbollah ha risposto domenica al bombardamento israeliano che ha causato più vittime in Libano dall’inizio del conflitto lanciando circa 250 razzi verso Israele, l’attacco più massiccio da settembre. Diverse persone sono rimaste ferite vicino a Tel Aviv e nelle aree di Haifa, Nahariya e Kfar Blum.
Israele è tornato a bombardare diverse aree del Libano lunedì e ieri, compreso il centro di Beirut, uccidendo una cinquantina di persone. L’ultima settimana è stata la più sanguinosa dall’inizio del conflitto. Secondo Elias Bousaab, vicino a Hezbollah, Israele ha voluto aumentare la pressione e la violenza dei bombardamenti per strappare l’accordo migliore possibile.
Negli ultimi due mesi, Israele ha colpito con raid sia le aree dove il “Partito di Dio” è più radicato, sia quelle dove è sempre stato considerato assente, nelle quali venivano però accolte famiglie sciite sfollate dai villaggi del sud. Secondo molti, l’obiettivo di Tel Aviv non era appena quello di colpire i terroristi, ma di divedere la società facendo sollevare le componenti cristiane e sunnite contro gli sciiti.
Il costo esorbitante della guerra
Le motivazioni che potrebbero aver spinto Israele ad accettare un cessate il fuoco – per quanto poco affidabile – anche in assenza di una “vittoria totale” da sbandierare sono diverse.
Innanzitutto il peso di una guerra, combattuta su più fronti, che va avanti da oltre un anno inizia a farsi sentire. L’economia dello Stato ebraico sarebbe dovuta crescere del 3,4 per cento quest’anno, secondo il Fondo monetario internazionale. La crescita ci sarà ugualmente, ma sarà probabilmente contenuta tra l’1 e l’1,9 per cento.
Il deficit quest’anno è già salito all’8,5 per cento del Pil. I dati in mano al ministro del Turismo segnalano che dall’inizio della guerra i mancati introiti causati dal calo di turisti ammontano a 5 miliardi di dollari.
Il danno economico per lo Stato ebraico è ingente. Secondo la Banca di Israele, la guerra potrebbe arrivare a costare alle casse di Tel Aviv fino a 66 miliardi di dollari, circa il 12 per cento del Pil nazionale. In un’analisi l’Institute for National Security di Tel Aviv ha inoltre sostenuto che «il danno economico che soffrirà Israele sarà a lungo termine a prescindere dall’esito della guerra».
La produttività, infatti, è stata fortemente minata nell’ultimo anno a causa dell’indisponibilità di forza lavoro. Se prima del conflitto una media di 3.200 lavoratori si assentavano ogni mese per servire nell’esercito, l’anno scorso tra ottobre e dicembre sono mancate 130 mila persone al mese.
«La società sta raggiungendo il limite»
Il peso della guerra inizia a farsi sentire anche sulla popolazione. Israele ha un esercito di 170 mila soldati attivi e 465 mila riservisti. Se all’inizio del conflitto un numero esorbitante di persone, circa 350 mila, si è presentato per combattere, ora il numero è sceso del 15-25%.
Anche le perdite – più di 800 soldati sono morti dall’inizio della guerra – sono significative per un paese piccolo come Israele. «La società sta raggiungendo il limite», ha dichiarato al Washington Post Gayil Talshir, analista politico alla Hebrew University.
Israele non può vincere militarmente
Ci sono anche ragioni di opportunismo per Israele. Una pausa di 60 giorni nei combattimenti permetterà all’esercito di prendere fiato e soprattutto allo Stato ebraico di aspettare l’insediamento di Donald Trump come nuovo presidente degli Stati Uniti per capire la strategia che vorrà adottare in Medio Oriente. Inoltre, la tregua con Hezbollah potrebbe convincere Hamas, decimata e rimasta sola a combattere Tel Aviv, ad accettare un accordo favorevole a Israele per il rilascio degli oltre 100 ostaggi ancora prigionieri nei tunnel della Striscia.
È anche probabile, infine, che Israele stia iniziando a fare i conti con la difficoltà di portare avanti una guerra senza obiettivi concreti: tagliate le teste delle organizzazioni terroristiche nella Striscia e in Libano (Sinwar e Nasrallah), quando la “vittoria totale” che Netanyahu dice di voler ottenere su Hezbollah e Hamas potrà considerarsi tale?
Una risposta non esiste e neanche il governo israeliano è mai stato in grado di formularla. Parte del problema di sicurezza di Israele resta infatti politico, e non militare, e riguarda il riconoscimento di una terra per i palestinesi (che Ben Gvir ha proposto proprio ieri di deportare). Fino a quando questo problema non verrà risolto politicamente, Tel Aviv non avrà mai con le armi la “vittoria totale” che cerca.
Ecco perché il cessate il fuoco, per quanto fragile, è un piccolo passo in avanti per tutti.
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