I ballottaggi del primo turno ridimensionano il risultato degli estremisti salafiti e migliorano quello dei Fratelli Musulmani, che avranno circa la metà dei seggi in Parlamento. Ma non possono allearsi con i salafiti, sono troppo diversi. L’unico modo per non diventare subalterni dei militari è allearsi con le forze democratiche che hanno lottato in piazza Tahrir
Molti media hanno presentato i risultati delle elezioni in Egitto come la prova della grande forza dell’islam politico, che nelle sue diverse espressioni partitiche avrebbe assorbito i due terzi dei voti degli elettori egiziani. Le cose non stanno così, perché ciò che divide i Fratelli Musulmani dai salafiti è molto più importante di ciò che li accomuna, e una coalizione di governo fra queste due forze è da escludere.
Inoltre i risultati dei ballottaggi del 6 dicembre hanno modificato significativamente il quadro politico egiziano così come era uscito dalla tornata elettorale del 28-29 novembre. Conquistando, secondo varie fonti, 34 dei 52 seggi in palio nei collegi uninominali, il partito della Libertà e della Giustizia, espressione dei Fratelli Musulmani, ha consolidato il suo vantaggio sugli altri partiti nel Parlamento che si costituirà dopo il voto del 3 gennaio 2012, ultimo appuntamento delle elezioni parlamentari in tre fasi che si stanno svolgendo. Secondo le proiezioni ora si trova a disporre di quasi la metà di tutti i seggi, mentre ai salafiti non ne toccherebbero più del 20 per cento e ai partiti democratici, nazionalisti, di sinistra, liberali, ecc. il restante 30 per cento. Il responso del voto proporzionale era stato decisamente diverso, col partito dei Fratelli Musulmani poco sopra il 36 per cento e al Nour, espressione dei salafiti, al 24 per cento. Quest’ultima era stata la grande sorpresa: nessuno si aspettava che i salafiti, privi di esperienza politica e portatori di un discorso incentrato quasi esclusivamente sull’osservanza di precetti religiosi, potessero ottenere un tale risultato. Col loro ridimensionamento ai ballottaggi e la rivalutazione del partito della Libertà e della Giustizia, la formazione storica degli islamisti egiziani appare meno condizionabile dai nuovi arrivati.
A tentare i Fratelli Musulmani a questo patto diabolico è anche un’altra riflessione: i salafiti possono essere infiltrati facilmente e usati in termini di destabilizzazione da parte dell’esercito e dei servizi segreti; se gli islamisti storici non accettano di rinunciare al progetto di privare i militari dei loro privilegi, questi ultimi potrebbero in vari modi spingere gruppi salafiti verso la lotta armata e il terrorismo, creando una situazione ingovernabile per il potere civile uscito dalle urne e generando a livello nazionale e internazionale richieste di ritorno all’ordine. L’unica alternativa all’accettazione della subalternità nei riguardi delle forze armate sarebbe quella di rivolgere lo sguardo ai grandi perdenti delle elezioni: quei partiti democratici i cui militanti sono stati la spina dorsale della rivoluzione del 25 gennaio, ma che non hanno saputo tradurre la stima degli egiziani nei loro confronti in consenso elettorale. Al di là delle differenze sulla questione del rapporto fra religione e politica, Fratelli Musulmani e democratici hanno in comune l’opposizione al vecchio regime di Mubarak e la partecipazione ai moti di gennaio e febbraio. La ricomposizione dell’alleanza vista in piazza Tahrir è indubbiamente l’unica strada per ridare speranza al processo di democratizzazione e di liberalizzazione che quelle proteste sembravano aver innescato. Diversamente, militari e salafiti avranno buon gioco nel riportare indietro l’orologio della storia in riva al Nilo.