Iraq, non solo morte e distruzione. Storie di amicizia tra cristiani e musulmani, che rischiano la vita per aiutarsi
Ad As-Sulaymaniyah, ha dichiarato il presule all’agenzia Misna, «vivono anche cinquanta persone in una stessa casa perché tante famiglie, musulmane e cristiane, hanno aperto le porte a chi fuggiva dalla violenza». La maggior parte dei profughi ha raggiunto la regione autonoma del Kurdistan, il capoluogo Arbil o i distretti al confine con Siria e Turchia. Ma duecentocinquanta famiglie sono arrivate anche a Kerkūk e cinquecento ad As-Sulaymaniyah, verso la frontiera con l’Iran. «Sono parte — spiega ancora l’arcivescovo caldeo — delle circa 130.000 persone che a inizio mese hanno dovuto lasciare tredici cittadine e villaggi dell’area di Mosul». Nella grande maggioranza sono cristiani, ma ci sono anche esponenti di altre minoranze etniche e religiose. Come i turcomanni, residenti da secoli in centinaia di città e villaggi dell’Iraq. E come gli shabak, considerati “fratelli” degli yazidi. O come gli sciiti, maggioranza nel sud dell’Iraq ma sempre più a rischio di fronte all’avanzata dello Stato islamico. «A Kerkūk — afferma monsignor Mirkis — ne stiamo assistendo circa cinquecento, accogliendoli nelle chiese e procurando tutto quello che serve». Questi profughi sono giunti per lo più dai monti Sinjar e dalla città di Tal Afar.
Sorprendenti storie di solidarietà si registrano anche a Mosul, capoluogo del governatorato di Ninive, la città più importante tra quelle cadute nelle mani dello Stato islamico. «Alcune famiglie musulmane — racconta l’arcivescovo, che di Mosul è originario — acquistano cibo, aiutano e nascondono cristiani; lo fanno in modo clandestino, perché se fossero scoperti rischierebbero la vita».
Un rinnovato appello alla preghiera e alla solidarietà in favore delle minoranze perseguitate in Iraq è stato lanciato nelle ultime ore da Caritas italiana. Le notizie delle violenze nel Nord del Paese si susseguono senza sosta, e la stessa Caritas Iraq, per la prima volta negli ultimi anni — viene riferito in un comunicato — è stata costretta a chiudere tre suoi uffici nelle località di Qaraqosh, Bartilla e Alqosh e a trasferire il suo staff ad Arbil, capoluogo della regione del Kurdistan, e nelle località di Zakho e Duhok, vicine al confine con la Turchia e la Siria, e ad Ainkawa.
In particolare a Zakho si concentra l’assistenza di Caritas Iraq alla minoranza religiosa degli yazidi, molti dei quali sono sopravvissuti dopo essersi rifugiati sul monte Sinjar, in pieno deserto e con temperature altissime. La fuga di molte famiglie è stata così rapida che hanno portato con sé solo quello che avevano addosso; ora, come informa Caritas Iraq, «i loro sguardi sono senza speranza, frustrati dal timore che il mondo non riesca a mettere fine a queste continue tragedie umane, una violenza che vuole trasformare il mondo in una giungla». Caritas Iraq — viene ricordato — ha scelto di concentrare la maggior parte delle sue attività nei villaggi vicini a Duhok (Sarsank, Ineshky, Amadiya) e a Zahko (Fishkhabour, Persephy, Derabon). Si tratta di zone non raggiunte da altre organizzazioni umanitarie, ma ben note alla Caritas, che meglio conosce il territorio. Sono cinquemila le famiglie assistite con viveri, medicinali, rifugi provvisori, ma il loro numero è in costante crescita. «L’impegno finanziario è notevole, supera il milione di euro e — viene sottolineato — il contributo della rete Caritas continua a essere essenziale».
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1 commento
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così deve essere. in medio oriente l’anomalia è l’isis. e da noi chi ne parla bene.