«Difficile dire che l’Isis è stato sconfitto a Mosul: la società che lo ha creato esiste ancora»
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Amel Nona ricorda ancora quella notte d’estate del 2014 quando tutti i cristiani di Mosul sono stati costretti a scappare, cacciati dallo Stato islamico che stava per fare della seconda città più importante dell’Iraq la sua roccaforte nel paese. «Quando mi è giunta la notizia della liberazione di Mosul da parte dell’esercito iracheno sono tornato con la mente a quella terribile notte e alla mia gente», racconta il vescovo della città cacciato dalla sua diocesi in una intervista a Aid to the Church in Need. «Ero spaventato per loro, soprattutto per le giovani ragazze nel nostro orfanotrofio in città. Ho fatto di tutto per aiutarle a fuggire sane e salve. Grazie a Dio, siamo riusciti a far uscire tutti».
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]«ISIS È UN MODO DI PENSARE». Nonostante Mosul sia ormai libera, l’attuale vescovo caldeo dell’Australia e della Nuova Zelanda, fatica a intravedere un futuro roseo per i cristiani in Iraq. «È difficile sostenere che l’Isis ormai è stato sconfitto a Mosul e dintorni. L’Isis infatti è un modo di pensare e agire, nato in una società islamica che ritiene di avere il diritto di fare ciò che vuole e pensa che il suo credo sia l’unico e che dovrebbe essere imposto a tutte le altre persone. Anche se Mosul è stata liberata militarmente, c’è ancora un’altra battaglia da combattere: quella per cambiare e sconfiggere la culla che genera questo modo di pensare e agire».
90 MILA PROFUGHI. È per questo che i cristiani faranno fatica a tornare alle loro case, nei villaggi liberati: «È difficile che i cristiani cacciati dall’Isis tornino a vivere una vita normale quando sanno benissimo che la società responsabile della nascita dell’Isis esiste ancora, proprio come tre anni fa», continua monsignor Nona. Nonostante questo, la Chiesa cattolica caldea si sta impegnando per ricostruire case e fiducia nei villaggi della Piana di Ninive e anche «noi in Australia stiamo cercando di aiutare». Ci sono ancora circa 90 mila cristiani che vivono in campi profughi a Erbil e che attendono di ritornare alle loro case di Mosul e della Piana di Ninive, dove 13 mila case hanno bisogno di essere ricostruite. Di queste, secondo gli ultimi dati, 423 sono state sistemate e 1.228 famiglie hanno già fatto ritorno nei villaggi di origine. In uno di questi, Bartella, liberato nel 2016, 200 famiglie ogni giorno fanno la spola da Erbil per cominciare a ricostruire. Ma c’è molto da fare, visto che acqua ed elettricità ancora non funzionano e la sicurezza non è garantita dal governo.
«VOGLIO TORNARE A VIVERE QUI». Molti cristiani però sono pronti a tutto pur di tornare. «Ho costruito la mia casa con le mie mani. Ho bevuto l’acqua del Tigri e ho lavorato qui come agricoltore per tutta la vita. Come potrei non desiderare di tornare?», spiega ad Acn Nohe Ishaq Sliman, uno degli uomini intenti nella ricostruzione di Bartella. «Questa è la mia città, voglio tornare a vivere qui». In molte città si ricomincia dalle cose basilari: ad Alqosh, ad esempio, è stata eretta una gigantesca croce sulla strada che porta al villaggio. «È davvero difficile dire quale sarà il futuro dei cristiani in Iraq», conclude monsignor Nona. «Ma come cristiano spero che il futuro sia luminoso nonostante i tanti fattori negativi che ancora predominano nell’area».
Foto festa per la liberazione di Mosul: Ansa
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