Sconcertati. Non credo ci sia vocabolo che rende meglio lo stato d’animo che ci afferra alla bocca dello stomaco nel momento in cui, dopo un po’ di interrogazioni e calcoli, ricaviamo dal meritorio data-base dei dati del censimento dell’Istat – ora online – la duplice conclusione che l’universo delle coppie italiane (tutte le coppie: sposate e di fatto, con e senza figli) è caratterizzato da questi due parametri: (1) la percentuale di coppie in cui il componente di riferimento (una volta il capofamiglia) ha meno di 35 anni è uguale al 7,9 per cento delle coppie, ovvero ad appena una coppia su 13; (2) il numero delle coppie in cui il componente di riferimento ha 65 e più anni risulta più grande di quasi quattro volte il numero delle coppie in cui il componente di riferimento ha meno di 35 anni.
Rispetto all’ultimo censimento le cose sono, sotto questo profilo, peggiorate. Come del resto già erano peggiorate nel decennio precedente e in quello precedente ancora. Giacché lo scontro al riguardo è in pieno svolgimento non fa male annotare come uno – il nostro – tra i mercati del lavoro più discriminatori e ingessati del mondo (garanzie per gli insider, zero per gli outsider; premi e avanzamenti unicamente o quasi collegati all’anzianità; personale della pubblica amministrazione imbarcato, come primo e più decisivo criterio, secondo l’appartenenza politica) abbia con ogni evidenza dato il suo non marginale contributo, in decenni, affinché a questo si arrivasse: alla sostanziale sparizione perfino di quelle coppie giovani che solo con un po’ di buona volontà si possono considerare tali. E qui si parla, ripeto a scanso di equivoci, di coppie nel senso più lato. Sposate e non. Con figli e non. Insomma, tutte. Che son diventate, in Italia, roba da mezza età o da vecchi, come dimostra ad abundantiam il fatto che ci sono quasi quattro coppie dove il componente di riferimento ha 65 e più anni per ogni coppia dove quel componente non arriva a 35 anni. Un disastro di proporzioni inenarrabili.
Se un figlio può bastare
Aggravato – è sempre possibile aggravare anche il peggiore dei disastri – da due elementi. Vale a dire l’assoluta – non relativa, assoluta – scomparsa delle coppie che davvero si possono definire a buona ragione giovani, quelle il cui componente di riferimento non arriva a 25 anni, finite a rappresentare lo stento di 4 coppie su mille e il numero medio di figli per coppia, precipitato a quota uno. Dunque in quest’Italia che sta collassando su se stessa, le coppie hanno in media un figlio. Valore che al Nord è 0,9 e che non arriva neppure a tanto in una grande regione come la Toscana – regione laica e secolarizzata per definizione dove trovare una coppia giovane è ancora più raro e dove ci sono la bellezza di quasi 5 coppie con persona di riferimento di 65 e più anni per ogni coppia con persona di riferimento di meno di 35 anni. Un immenso reusorio, come da quelle parti (che sono anche le mie parti) chiamavano gli ospizi per vecchi d’una volta. E dove hanno pensato bene, per non scontentare la platea dei dirigenti nella attribuzione delle competenze durante l’ultima riorganizzazione regionale (stanno sempre a scomporre e ricomporre, compattare e smembrare di nuovo: come in pressoché tutte le regioni, sia chiaro), di dividere le politiche della famiglia da quelle per i bambini e i minori. E se non è un capolavoro questo.
Che l’interrogativo sia drammatico, tanto più in un’Italia ch’è tra i paesi più vecchi e meno fecondi del mondo, lo dimostra il fatto che nel 2013 abbiamo toccato il minimo storico delle nascite – 514 mila, la metà di quelle raggiunte nel 1964 (quando pure gli anni erano, ricordate?, rivoluzionari per antonomasia) – e che nel corrente anno 2014 stiamo viaggiando addirittura sotto quel minimo, cosicché abbiamo una buona probabilità di stabilire un nuovo record al ribasso. Non sembrano rendersene bene conto tutti coloro – e sono una schiera, tra cui il fior fiore dei sociologi – che vedono questi risultati strettamente connessi alla crisi economica in atto, come se a nient’altro fossero da addebitarsi che ad essa. Magari fosse. Passata la crisi (e passerà pure, di questo non è lecito dubitare; semmai dei tempi necessari a un tale superamento) ecco che le persone riprenderebbero a costituire coppie e a fare figli. Qualche beneficio in questo senso sì avrà pure, intendiamoci, ma con un universo di 14 milioni di coppie come quello delineato si farà sentire assai debolmente in termini di ripresa delle nascite e di ringiovanimento della società nel suo insieme.
Lo stato sociale alle corde
Il punto da introiettare bene è infatti questo: la crisi economica attuale rappresenta un’aggravante, non certo la causa scatenante di quel che siamo diventati, vale a dire la nazione al mondo più povera di bambini. Basta, a dimostrarlo, il fatto che ci troviamo all’interno di un trend di bassa, bassissima fecondità da quattro decenni – non da quattro anni – a questa parte. Se non ci sono coppie giovani in proporzioni minimamente sufficienti è in effetti ben difficile sperare in una ripresa di nascite e fecondità. D’altro canto, avanti di questo passo tempo due-tre decenni non sapremo come tenere in piedi non dicasi lo stato sociale, non dicasi il welfare ma lo Stato in quanto tale.
Tanto per capirci, a Cagliari come a Trieste ci sono 8 anziani ultrasessantacinquenni per ogni bambino fino a cinque anni non compiuti d’età; mentre a Genova gli abitanti di 80-89 anni quasi pareggiano quelli di 0-9 anni. Ci stiamo sclerotizzando a vista d’occhio, come popolazione e come paese. E stiamo a raccontarcela sull’articolo 18? Se nel “sistema Italia” non si inseriscono a tutta velocità elementi di elasticità, dinamismo, gusto per l’impresa e la vita, e pure per l’imprevisto e il rischio, non c’è futuro possibile. Quattro decenni all’insegna del più burocratico ed elefantiaco incedere questo hanno prodotto: che siamo alle porte coi sassi, vecchi, soli e avviati, se non ci sbrighiamo, a una decadenza irreversibile.