Sul sito del Tgcom si scrive: «Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, durante una conferenza stampa in una stazione della metropolitana di Kiev, ha ribadito che per arrivare a una “soluzione diplomatica” e fermare la guerra serve un incontro tra lui e il leader russo Vladimir Putin. “Dobbiamo cercare di raggiungere questo obiettivo”, ha affermato, “ma dalla Russia non vediamo questo. Dicono una cosa e poi fanno l’opposto”».
Che Zelensky rilanci parole di pace è un sollievo per tutte le persone di buona volontà. Gli spazi di manovra del presidente ucraino però sono molto limitati e l’apertura di qualche seria prospettiva di pace dipende essenzialmente dal “grande amico” di Kiev, gli Stati Uniti.
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Su Open Giovanni Ruggiero scrive: «La delegazione della Casa Bianca è rientrata in Polonia questa mattina, dopo una visita molto breve nella capitale ucraina raggiunta in treno: “Non ci sono state molte possibilità di parlare con i cittadini”, ha spiegato Antony Blinken. Per quanto rapido, il faccia a faccia ha segnato un’importante accelerazione negli aiuti militari per Kiev, con uno stanziamento di oltre 700 milioni di dollari che Washington vuole destinare direttamente in denaro tra l’Ucraina e gli alleati Nato impegnati a rifornire di armi Kiev. L’obiettivo, ha spiegato il capo del Pentagono, è sfiancare l’offensiva di Mosca a medio termine: “Noi vogliamo vedere la Russia indebolita a un livello tale che non possa più fare cose come l’invasione in Ucraina. Mosca ha già perso molte delle sue capacità militari e molte truppe, per essere franchi, e noi non vorremmo che possa ricostruire rapidamente tali capacità”».
L’obiettivo americano, dice il capo del Pentagono, non è quello di arrivare rapidamente a una pace, ma di sfiancare la Russia. Da decenni ormai gli Stati Uniti aprono crisi internazionali che poi non riescono a chiudere seriamente: così in Afghanistan, in Iraq, in Siria, in Libia, in Sudan, nel Corno d’Africa. Che adesso pensino di seguire questa strategia anche in Europa, non può non sollevare qualche solido timore.
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Sulla Zuppa di Porro si scrive: «A parlare oggi è Sergey Lavrov, potente ministro degli Esteri della Russia, secondo cui “armando l’Ucraina” la Nato di fatto “è entrata in una guerra per procura” contro Mosca. Non solo. Il rischio, sostiene il ministro di Putin, è che la guerra combattuta con armi convenzionali possa allargarsi a quelle nucleari. I pericoli sono “molto significativi” e “non devono essere sottovalutati”. Mosca non intende farlo, ma le guerre sono strane: non si sa mai quando la pallina di neve inizia a diventare valanga. Lavrov ha paragonato l’attuale conflitto alla crisi missilistica di Cuba del 1962. Ma con una differenza: “A quel tempo c’erano regole, regole scritte. Le regole di condotta erano molto chiare. Era chiaro a Mosca come si stava comportando Washington e Washington aveva chiaro come si stava comportando Mosca, ma ora rimangono poche regole”».
Per quanto si sia preoccupati per la strategia di Vladimir Putin che sembra ispirata più dalla disperazione che dalla razionalità, non si può non ascoltare le parole di un uomo pieno di esperienza come Lavrov.
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Su Affaritaliani si scrive: «Contestazioni alla Brigata ebraica nel corteo del 25 aprile a Milano si sono verificate tra Porta Venezia e via San Damiano. “Fuori l’Italia dalla Nato”, hanno urlato a più riprese ai lati del corteo tra la folla e poi all’incrocio con la Circonvallazione. Sempre lo stesso gruppo ha contestato anche il Pd, definito “partito guerrafondaio” favorevole alle spese militari. “Niente soldi alle armi”, urlano i manifestanti, “niente tagli a scuola e sanità”».
Se fischiare Enrico Letta al corteo del 25 aprile può essere giudicato, con qualche argomento, stupido, aggredire sia pure verbalmente la Brigata ebraica è immondo. Al cuore della grandezza delle resistenze europee al nazismo c’è il carattere sacro dell’Olocausto ebraico, l’espressione più netta di come Adolf Hitler abbia rappresentato il “male assoluto” (che Karol Wojtyla, pur nemico mortale del comunismo, distingueva dall’esperienza sovietica descritta come “male storico” quasi “necessario”). Il ripudio del “male assoluto” (che poi si è assommata alla possibilità di autodistruggersi dell’umanità con le arme atomiche) fonda le basi della nostra epoca. Ecco un motivo per cui in occasione del 25 aprile non si dovrebbero mescolare tragiche vicende contemporanee (per esempio ieri la guerra americana in Vietnam, oggi quella russa in Ucraina) con la scelta di tutto il mondo (dall’allora Unione Sovietica agli Stati Uniti, dalla Francia alla Cina) di considerare il nazismo il “male assoluto” da estromettere dalla storia mondiale.
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Su Scenari economici Leoniero Dertona scrive: «Un divieto totale dell’Ue sulle importazioni russe di petrolio greggio e gas potrebbe avere conseguenze economiche non desiderate per gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, ha detto giovedì il segretario al Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen ai giornalisti a Washington. Un eufemismo per indicare che sarebbe un disastro. Il segretario al Tesoro ha aggiunto che un tale divieto potrebbe fare più male che bene. L’Europa ha bisogno di ridurre la sua dipendenza dal petrolio e dal gas russi, ha detto Yellen, “ma dobbiamo stare attenti quando pensiamo a un divieto europeo completo, diciamo, delle importazioni di petrolio“».
La Yellen sembra un po’ una Elvira Nabiullina americana che avverte la Casa Bianca che anche l’economia mondiale, non solo le politiche di sicurezza, non vive solo di retorica.
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Sul Sussidiario Andrew Spannaus, giornalista e opinionista americano, fondatore di Transatlantico.info, dice: «Il governo Draghi ha fatto perdere all’Italia il suo ruolo storico di paese mediatore e dialogante con i paesi fuori dell’Alleanza atlantica, cosa che la porta a perdere quella specificità utile per se stessa e per gli altri che aveva sempre caratterizzato la sua storia».
Anche un giornalista non privo di legami con ambienti del Pentagono fa presente a Mario Draghi che all’Italia sarebbe utile svolgere un maggior ruolo di mediazione con Mosca.
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Su Huffington Post Italia Giulia Belerdelli scrive: «Ancora una volta, è l’Austria a rompere formalmente le file dell’unità europea sulla risposta del blocco allo tsunami scatenato dalla guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina. Dopo la visita – molto criticata – del cancelliere austriaco Karl Nehammer a Mosca, un paio di settimane fa, questa volta è il ministro degli Esteri Alexander Schallenberg a gelare il governo ucraino: Vienna è contraria al conferimento all’Ucraina dello status di candidata all’adesione all’Unione Europea previsto per giugno, ha dichiarato il ministro».
La mancanza di una strategia per la sicurezza ben definita da Washington, sostituita dallo sforzo di disgregare la Russia, riporta in luce le divisioni storiche di un’Europa che l’Unione coordina ma non governa: così l’asse baltico, così gli slavi cattolici contrapposti a quelli ortodossi, così il mondo germanico. Ecco un processo che può progressivamente degenerare se non si trova il modo di costruire una strategia e di non affidarsi solo alla retorica e alla propaganda.
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Su Formiche Giulio Sapelli scrive: «Il Partito socialista è praticamente distrutto e il gaullismo storico si è diviso in mille rivalità, tra affascinati dalla luce al neon di Emmanuel Macron che attira le falene oppure da un Éric Zemmour che Vincent Bolloré ha creato da prestidigitatore per impedire a Marine Le Pen di vincere e anche a Macron di… “troppo vincere” – come farà – con troppo vantaggio e solo grazie ai voti di un Jean-Luc Mélenchon che rimane l’unica comunità concava, accogliente, per la multi religiosità e la multietnicità. Lo dimostra il radicamento del vecchio trozkista tra proletari e Lumpenproletariat musulmani, cristiani, migranti e immigrati, ebrei come lo stesso Mélenchon e laici di quel repubblicanesimo massone à la Mitterrand che sopravvive solo in Francia. E qui sta il punto: vincerà Macron perché così deve essere. Non solo per sconfiggere Marine, ma perché è necessario per impedire che l’aggressione all’Ucraina diventi una sconfitta per tutta la Nato e tutta l’Ue. Ma la vittoria di Macron, ricordiamolo, avverrà in queste condizioni: con la guerra che è destinata a non finire presto e il rafforzamento militare e non tanto e soltanto l’“allargamento” della Nato ma il suo rafforzamento, destinando ingenti risorse economiche su quelle frontiere con i mari dai bassi fondali del Baltico dove non possono operare i sommergibili nucleari (!) e che seguirà all’adesione scandinava e finlandese».
L’idea di superare destra e sinistra e di creare, al posto di partiti considerati obsoleti, un centro tecnocratico garante dei processi di globalizzazione, si è sperimentata in Italia con Matteo Renzi, poi con Emmanuel Macron in Francia, dove – avendo il gruppo Rothschild al posto del Monte dei Paschi e l’Ena invece della Bocconi – ha funzionato meglio. Non so quale sarà il futuro di questo centro tecnocratico, probabilmente dipenderà dal successo o meno di un processo di maggiore integrazione dell’Unione Europea. Nel frattempo Macron vivrà, senza una reale maggioranza nella società, una stagione difficile che gli richiederà, innanzi tutto in politica estera, una certa autonomia da Washington.
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Su Startmag Dario Fabbri scrive: «È questo che preoccupa il presidente francese, Emmanuel Macron, duramente critico verso il violento climax alimentato dalla Casa Bianca. Macron ha consigliato a Biden una maggiore cautela con le parole usate – specie dopo che l’americano ha descritto come genocidio la tragedia di Bucha. Parigi è soprattutto preoccupata del nuovo attivismo americano in Europa, che rischia di annullare ogni progetto comunitario di integrazione militare, ma vorrebbe anche scongiurare che la Russia sprofondi nelle braccia della Cina, negazione di quello spazio (più o meno) unito da Lisbona a Vladivostok, sognato dal leader francese. Ma questo è il principale effetto strategico della guerra in Ucraina, scatenata da Mosca, subìta da Kiev, vissuta da Washington, sfruttata da Pechino».
L’analisi di Fabbri non mi sembra forzata.
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Su Dagospia si scrive: «Infatti, sia Macron che Scholz sono incazzati con il bombardiere di complemento Draghi. E intendono mollarlo tra le braccia dello Zio Sam. Il neo riconfermato presidente francese, in barba al Pentagono, è intenzionato a riprendere il dialogo con Putin – non a caso, dopo aver battuto Marine Le Pen, “Manu” ha ricevuto un telegramma anche dal capo del Cremlino: “Ti auguro sinceramente successo nella tua attività di statista, buona salute e benessere”».
Lo stile di Dagospia è quello che è, però talvolta persino la rozzezza delle espressioni spinge a riflettere.