C’è un solo leader politico al mondo, in questo momento, che può permettersi di tenere in gattabuia a tempo indeterminato una trentina di attivisti ambientalisti internazionali, di ribattere colpo su colpo alle popstar planetarie pro-gay Madonna e Lady Gaga, di fornire armi e protezione a un regime arabo dittatoriale impegnato in una guerra civile all’ultimo sangue, senza uscire da tutto ciò indebolito. C’è un solo uomo politico al mondo che da tutto questo esce rafforzato, al punto da poter farsi ricevere in visita da papa Francesco senza quasi che si odano proteste, e mentre si sentono non pochi applausi.
Il leader politico si chiama Vladimir Putin. E il motivo per cui riesce a imporsi laddove altri, col suo stesso curriculum, verrebbero respinti ed emarginati, è che ha saputo rendere indispensabili sé e il paese di cui è a capo. Grazie agli errori e impazzimenti altrui tanto quanto grazie alle sue doti politiche machiavelliche, la Russia sta diventando, parafrasando quello che Madeleine Albright diceva degli Stati Uniti, la nazione indispensabile. Non per condurre operazioni militari internazionali dai chiari fini geopolitici sotto il mantello dell’intervento umanitario, come capitava con gli Usa di Bill Clinton e si è ripetuto in Libia con Obama. No. Qui siamo di fronte a un’indispensabilità a geometria variabile.
La Russia e il suo leader appaiono indispensabili alle minoranze cristiane in Medio Oriente minacciate dal jihadismo e dal salafismo, che non sperano più nulla dalle antiche potenze coloniali un tempo cristiane (Francia e Regno Unito) e sono pronte ad affidarsi alla protezione di Mosca, tornata alla fede. Appaiono indispensabili a laici e musulmani moderati che in Egitto e in altri paesi del mondo arabo sono disposti a tutto per impedire il radicamento di regimi politici islamisti e accusano l’America di essersi schierata coi Fratelli Musulmani.
In Europa la Russia di Putin è indispensabile a paesi come l’Italia, bisognosi di un rapido ritorno alla crescita del Pil per uscire dalla trappola del debito e della deflazione, senza dover aspettare gli effetti macroeconomici positivi della mortifera “svalutazione interna” imposta dal miope rigore tedesco; quella ripresa immediata che necessita megacontratti fra le grandi multinazionali a capitale pubblico italiane e i conglomerati russi, cose che richiedono le firme e le capacità persuasive dei capi di governo.
È indispensabile anche all’Unione Europea, anzitutto per definire se stessa, e non è poco. Sia quando i russi giocano al partner collaborativo sia quando interpretano il partner riottoso, se non addirittura l’antagonista come nella recente vicenda della mancata associazione dell’Ucraina all’Unione, l’Europa trae vantaggi. Che si tratti della procedura d’infrazione per violazione delle normative sull’antitrust che la Commissione europea agita contro Gazprom o del negoziato con Kiev per un trattato di associazione, l’ostruzionismo di Mosca costringe i paesi membri dell’Unione Europea a serrare le fila e a mettere l’interesse collettivo davanti a quello individuale, a chiedersi una buona volta fin dove è opportuno e conveniente spingere i confini dell’Unione, a fare i conti realisticamente con un’iniziativa di integrazione sovranazionale in territorio europeo alternativa a quella di Bruxelles com’è l’Unione economica euroasiatica fra paesi dell’ex Unione Sovietica che potrebbe vedere la luce nel 2015.
Putin ha visitato papa Francesco in Vaticano lunedì scorso, ed è stata la prima volta in assoluto che un nuovo papa ha incontrato il capo di Stato della Russia prima di quello degli Stati Uniti. Una semplice coincidenza, forse, ma altamente simbolica. L’Occidente continua imperterrito da quattro decenni a tagliare le sue radici cristiane e giusnaturaliste, a colpi di aborto trasformato in diritto, legalizzazione dell’eutanasia, promozione del matrimonio fra persone dello stesso sesso ed estensione alle medesime dell’adozione e della procreazione, fecondazione assistita in chiave eugenetica, espulsione dei simboli religiosi dallo spazio pubblico, mentre agnosticismo e ateismo avanzano nelle statistiche sulle convinzioni religiose. Negli Stati Uniti l’Obamacare costringe ospedali e università cattoliche ad assicurare ai propri dipendenti anche l’accesso ai servizi di interruzione della gravidanza e a tutte le forme di contraccezione. Se cattolici e cristiani in genere sono sempre più disamorati dell’Occidente, il perché si può capire.
Invece la Russia, insieme a Israele, è l’unico paese industrializzato dove negli ultimi vent’anni la percentuale di popolazione che si dichiara religiosa è cresciuta. E negli ultimi cinque anni i matrimoni e le nascite hanno ripreso ad aumentare e il numero degli aborti a diminuire. Il governo ha preso a finanziare la riorganizzazione della Chiesa ortodossa sul territorio e fra le altre cose ha approvato la controversa legge che punisce la “propaganda omosessuale” rivolta ai minorenni, in evidente contrapposizione politico-culturale al crescendo di legislazioni pro-gay in America e in Europa.
Altro che interventi umanitari
Certo, il Papa e Putin non hanno parlato di queste cose ma delle prospettive di pace in Siria. Un altro argomento sul quale Francesco e la grande maggioranza del mondo cattolico si sono scoperti più vicini a Putin che a Obama quando nel settembre scorso, senza averlo concordato, si sono ritrovati dalla stessa parte della barricata a opporsi a un intervento militare franco-americano in Siria. Forse a gennaio vedrà finalmente la luce Ginevra II, la conferenza internazionale dalla quale ci si attende qualche sviluppo positivo per il martoriato popolo siriano. Ma Putin e Francesco potrebbero essersi spinti un po’ più in là. Dice a Tempi Vittorio Emanuele Parsi, esperto di politica internazionale docente alla Cattolica di Milano: «C’è una posizione di entrambi talvolta critica rispetto a come l’Occidente si è mosso in questi anni. Pur da posizioni diverse, c’è un interesse reciproco a capire se attraverso il dialogo si può sviluppare qualcosa di più di una contestazione dell’ordine attuale, magari una proposta».
Il taglio della proposta di Putin si può immaginare. La raffica di veti con cui Mosca ha bloccato i tentativi di risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu sulla Siria negli ultimi due anni non ha a che fare con un debito di gratitudine con la famiglia Assad, che pure per tanto tempo ha garantito la fruibilità del porto di Tartus alle sue navi da guerra e acquisti di armi russe. Non dipende nemmeno dal fatto che in Russia vivono 20 milioni di musulmani, in gran parte residenti nel turbolento Caucaso dove ancora oggi si combatte per l’instaurazione di un califfato simile a quello che alcune delle più importanti formazioni ribelli vorrebbero creare in Siria. Dipende dall’eccessiva facilità con cui, dalla fine degli anni Novanta a oggi con la parentesi dell’unilateralismo di G. W. Bush, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno utilizzato l’ombrello dell’Onu per interventi umanitari che erano in realtà di “regime change”. E questo quasi sempre con risultati poco brillanti. «I russi – scrive Samuel Charap dell’International Institute for Strategic Studies di Washington – credono che la serie di interventi a guida americana che si sono conclusi con cambiamenti di regime dalla fine della Guerra fredda – Kosovo, Afghanistan, Iraq e Libia – rappresenti una minaccia alla stabilità internazionale e potenzialmente alla “stabilità di regime” nella Russia stessa. La convinzione che la Russia potrebbe essere l’obiettivo di interventi del genere è fortemente radicata a Mosca».
L’inaffidabilità americana
Se l’alleanza almeno tattica con Putin appare necessaria a tutti coloro che non credono nelle virtù del regime change travestito da intervento umanitario, essa risulta addirittura inevitabile per i paesi del Medio Oriente che nel corso dei due mandati di Obama hanno maturato la convinzione dell’inaffidabilità degli Stati Uniti. L’America ha abbandonato leali alleati come Mubarak nel momento del bisogno, mostrato indecisione in conflitti complessi e destabilizzanti come quello siriano, appoggiato i Fratelli Musulmani e i loro affini che dappertutto hanno dirottato o tentato di dirottare le primavere arabe. Il risultato è che un numero crescente di capitali mediorientali guarda a Mosca, prima fra tutte il Cairo, dove a metà di novembre sono sbarcati, 41 anni dopo che Anwar El Sadat aveva allontanato i 20 mila consiglieri militari sovietici chiamati da Nasser, i ministri degli Esteri e della Difesa russi. Gli Stati Uniti di Obama cercavano proconsoli europei ai quali affidare quelle aree del Medio Oriente dalle quali hanno deciso di disimpegnarsi. Si sono presentate Francia e Inghilterra, ma a recuperare spazi sembra essere la Russia.
Il modo in cui la Russia di Putin è un paese indispensabile per Bruxelles, abbiamo detto, è un po’ diverso. La procedura d’infrazione contro Gazprom in via di istruzione è uno di quei casi in cui l’Unione Europea è chiamata a dimostrare nei fatti l’utilità della sua esistenza per chi ne fa parte. La Commissione europea accusa il gigante russo del gas di abusare della sua posizione dominante nei mercati dell’Europa centrale e orientale, segnatamente paesi baltici, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Bulgaria. A questi paesi Gazprom applica prezzi più alti di quelli che fa pagare in Germania e in Italia, che pure sono paesi più ricchi e più distanti, e impedisce la riesportazione del gas acquistato, pratica dichiarata da tempo illegale. Se la compagnia russa non si sottomette alle regole del mercato europeo, rischia una multa pari a 12 miliardi di euro. La procedura non è ancora partita, il commissario alla Competizione Joaquín Almunia ha annunciato che sta solo preparando la “lista delle obiezioni”, il primo passo del percorso legale. Che Bruxelles si muova nell’interesse di lituani e slovacchi, nonostante tedeschi e italiani non abbiano di che lamentarsi per quel che li riguarda, è notizia che rianima la fiammella dell’idealismo europeista, non del tutto spenta.
La marcia indietro dell’Ucraina
Più discutibile, invece, l’isteria con cui molti politici europei hanno reagito alla marcia indietro dell’ultimo minuto di Kiev rispetto al trattato di associazione. Molti hanno parlato di “ricatti” russi all’Ucraina, quando invece quello a cui abbiamo assistito è stato un mercato delle vacche voluto dal presidente Yanukovich, che alla fine ha sposato la linea di Mosca semplicemente perché i russi hanno offerto di più di quello che Bruxelles prometteva. Ma è davvero un male per l’Europa quello che è accaduto? Dice ancora Parsi: «Va bene finché si parla della Serbia, ma che senso ha portare l’Ucraina nell’Unione? Non possiamo fare entrare tutti. Non riusciamo a gestire la situazione attuale, e ci portiamo dentro un paese così complicato, dove solo metà della popolazione è d’accordo?». Ecco, la Russia è indispensabile perché l’Unione Europea decida quali sono i suoi confini definitivi.