

C’era una volta il secolo breve, due guerre mondiali, milioni di figli morti e sepolti nelle trincee, le lezioni “Be like Bert, duck and cover”, impartite nelle scuole per mostrare ai bambini come rannicchiarsi a guscio di tartaruga in caso di attacco nemico, aspettando la bomba atomica. Nessuno smise di mettere figli al mondo, neanche dopo Hiroshima. Scriveva Lewis nel 1948: «È perfettamente ridicolo andare in giro piagnucolando e disegnando facce lunghe perché gli scienziati hanno aggiunto un’altra possibilità di morte dolorosa e prematura a un mondo che già pullulava di tali possibilità e in cui la morte stessa non era affatto una possibilità, ma una certezza». E ora?
Se nel XX secolo le scuole insegnavano ai giovani come mantenere la calma e andare avanti, ora, come ben scrive Madeleine Kears sullo Spectator, «stiamo insegnando loro a farsi prendere dal panico. Un’attenzione incessante alle sfide del cambiamento climatico, volta a persuadere le persone a prendere sul serio l’ambiente, ha invece creato una cultura della disperazione. Uomini e donne che potrebbero avere una famiglia sono così oppressi dal senso di colpa e così preoccupati per l’effetto che gli esseri umani hanno sull’ambiente da non riuscire a realizzare che non c’è mai stato un momento migliore per avere dei bambini».
Il riferimento è all’incredibile sondaggio condotto tra 10 mila giovani tra i 16 e i 25 anni pubblicato da Lancet a settembre: il 39 per cento dei ragazzi si dichiara “riluttante ad avere figli” a causa dei cambiamenti climatici. Il 77 per cento ritiene infatti che il futuro sia spaventoso, sei su dieci si dicono estremamente preoccupati dal climate change, oltre il 50 per cento si dice terrorizzato e impotente. Non si tratta di uno sparuto gruppo di attivisti o di Ginks: l’ansia climatica ha assunto un ruolo nella demografia mondiale certificato perfino dagli analisti di Morgan Stanley: «Il movimento per non avere figli a causa dei timori per i cambiamenti del clima sta crescendo – avvertivano così in una nota gli investitori – e sta avendo un impatto sui tassi di fertilità più rapido di qualsiasi tendenza precedente nel campo del declino della fertilità». Avere un figlio, scrivono citando dati, sondaggi, ricerche accademiche, «è 7 volte peggio per il clima rispetto alle emissioni di CO2 ogni anno che le 10 azioni mitiganti principali che gli individui possano perseguire».
C’è chi sceglie di non avere figli perché teme che ciò acuirà il riscaldamento globale, c’è chi teme debbano affrontare eventi metereologici devastanti. Come Tom Woodman che sente il “dovere morale” di non avere figli sia per non contribuire al global warming sia per non farli soffrire durante la fine del mondo. È tutto tragicamente vero, leggere per credere sempre lo Spectator e l’incredibile articolo firmato dal trentenne Woodman pieno di frasi intervallate da numeri e proiezioni dell’Ipcc sul clima, che suonano così: «Gli esseri umani stanno rapidamente rendendo il pianeta inabitabile. Perché dovremmo voler mettere al mondo un altro essere umano?».
Per Woodman, a differenza di bombe nucleari e pestilenze, il collasso del clima non dà scampo a nessuno, «non c’è nessun cessate il fuoco da invocare, nessuna cura miracolosa. Ci condanna tutti, senza vincitori, senza fine. Non c’è nessun posto dove fuggire. Se il collasso climatico metterà in pericolo tutti e non c’è modo per me di impedirlo, come posso in buona coscienza mettere al mondo i bambini?». Woodman è in ottima e ansiata compagnia: numeri alla mano, il terrore dell’apocalisse climatica tira più del tracollo demografico, ricerche e giovani in piazza gridano alla fine del mondo, quel che resta del mondo si organizza in sessioni per la gestione del lutto ecologico, da Harry di Inghilterra a Alexandria Ocasio-Cortez è tutto un “basta figli, salviamo la Terra”.
Lo abbiamo scritto tante volte, la tragedia di questa posizione è che le paure di questa generazione ansiosa sono in gran parte infondate (qui trovate Bjørn Lomborg, che in vista della Cop26 smonta per Tempi un pezzetto alla volta la narrazione dominante allarmista sul clima, e qui l’intervista a Francesco Ramella sul climate change che «è un problema, non la fine del mondo»), lo ribadisce Kears sottolineando l’ovvio: «È probabile che i bambini nati oggi abbiano una vita più lunga e migliore di quelli di qualsiasi altra epoca. Saranno meglio istruiti con meno preoccupazioni per la salute e avranno un lavoro più gratificante di quanto le generazioni precedenti avrebbero potuto sognare. Solo un secolo fa, un terzo dei bambini non sarebbe arrivare al loro quinto compleanno. Ora il tasso globale di mortalità infantile è del 4 per cento. I genitori oggi trascorrono il doppio del tempo con i loro figli rispetto a 50 anni fa. La qualità dell’aria è migliore ora di quanto non sia mai stata a memoria d’uomo».
Difficile usare il buon senso quando nel Regno Unito l’Agenzia per l’ambiente lancia il claim «adattarsi o morire» che poco ha da invidiare al «dovete sentire il panico» di Greta e al «codice rosso» emanato dall’Ipcc. L’ossessione per il giorno del giudizio funziona per titolare i giornali, quanto a risolvere i problemi si tratta solo di «energia sprecata»: «Mi sono formata come insegnante in Scozia, dove fino a poco tempo fa gli alunni di geografia erano incoraggiati a esaminare gli effetti positivi del cambiamento climatico come esercizio di pensiero critico. Potrebbero guardare, ad esempio, all’ultimo rapporto dell’Ipcc sui cambiamenti climatici che, oltre al riscaldamento, ha osservato che “la frequenza e l’intensità degli estremi freddi sono diminuite”. Dopo le proteste del pubblico e dei politici, questo esercizio è stato rimosso dal curriculum», scrive Kears, sottolineando che anche si avverasse il peggio di tutte le catastrofi pronosticate «è difficile trovare, anche nei documenti dell’Ipcc, previsioni di un mondo troppo pericoloso per crescere i bambini».
In altre parole se siamo tutti qui a rispondere dai paesi più ricchi e sviluppati del mondo ai sondaggi sull’apocalisse climatica (mica dall’Africa sub sahariana), è perché qualcuno, in guerra, carestia, pestilenza, schiavitù e malattia non ha rinunciato a darci la vita. A ben vedere l’unica minaccia che incombe sulla sopravvivenza della nostra specie nei paesi più sviluppati si chiamerebbe estinzione. Sono anni che strepitano «Ci avete rubato il futuro» gli ambientalisti che non vogliono dare un futuro all’umanità. Oggi il tasso di fertilità degli Stati Uniti si attesta a 1,7 nascite per donna, la metà di quello del 1950. In Gran Bretagna è 1,6, in Italia è 1,3. Dai baby boomers ai baby doomers, chi argomenta di fine del mondo lo fa «nei luoghi più ricchi del mondo e nel momento migliore della storia per essere vivi».
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