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I bla bla bla di Greta sul clima, che non vede tutto ciò che è stato fatto

Europa e Stati Uniti hanno ridotto le emissioni. «La transizione è costosa, va fatta ma senza fretta né allarmismi. Il Climate Change è un problema, non la fine del mondo». Intervista a Francesco Ramella

Piero Vietti
30/09/2021 - 6:30
Ambiente, Economia
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Greta Thunberg a Milano
Greta Thunberg durante il suo intervento allo Youth4Climate di Milano (foto Ansa)

L’attivista climatica Greta Thunberg è il pezzo forte delle giornate milanesi della pre conferenza sul clima di novembre a Glasgow, e ha avuto il suo momento di gloria nell’efficace discorso tenuto martedì all’evento Youth4Climate: Driving ambition, organizzato da adulti che fanno parlare i giovani in ansia per il clima. «Sono trent’anni che ascoltiamo i vostri bla bla bla», ha detto la diciottenne svedese diventata famosa per i suoi scioperi da scuola contro l’inerzia dei governi nel combattere i cambiamenti climatici.

Che cosa dicono i dati

Thunberg si riferiva alle promesse che vengono fatte da qualche decennio alle conferenze dell’Onu sul futuro del pianeta, mai – secondo Greta – seguite dai fatti. Ma se è vero che spesso gli impegni presi delle nazioni sono stati tanto roboanti quanto vuoti, è diventata ormai stucchevole, oltre che non basata sui fatti, la critica che continua a ripetere che negli ultimi trent’anni i governi di mezzo mondo non abbiano fatto nulla.

L’accusa all’occidente di essere solo chiacchiere e distintivo green «non corrisponde ai dati che conosciamo», dice a Tempi Francesco Ramella, ingegnere, direttore esecutivo di Bridges Research Onlus, esperto di politiche climatiche e analista presso l’Istituto Bruno Leoni. «Da un paio di decenni Europa e Stati Uniti hanno ridotto le emissioni di gas serra in modo non irrilevante, rispettivamente di circa del 30 e del 15 per cento rispetto ai massimi raggiunti. È falso dire che siamo fermi sempre allo stesso punto, passi in avanti ne sono stati fatti, e significativi. È vero che a livello globale il trend delle emissioni è in aumento, e prima del Covid era al suo massimo, ma questo è dovuto al fatto che la crescita delle emissioni dei paesi emergenti ha più che compensato la riduzione avvenuta nei paesi occidentali».

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Il costo di ridurre le emissioni

Ramella lo ha fatto notare martedì stesso su Twitter, pubblicando un grafico sulle emissioni annuali di CO2 di Europa, America, India e Cina: i due paesi asiatici oscillano tra un +300 e un +350 per cento. Come spesso succede a chi non urla all’apocalissi imminente, Ramella è stato travolto da critiche, qualche insulto, accuse di manipolazione dei dati e di essere pagato da aziende che producono combustibili fossili. I dati sulle emissioni però sono quelli. «Certo, l’Europa le ha ridotte partendo da un livello maggiore, ma dal 1990 sono scese: l’Ue ha oggi emissioni per persona analoghe a quelle della Cina, addirittura l’Italia da dieci anni è sotto al livello cinese se si considerano le emissioni nazionali e di poco superiore mettendo sul nostro conto anche quelle dei prodotti che acquistiamo dalla Cina».

Sono numeri che non si sanno, e che non si danno, troppo impegnati a dipingerci come unici cattivi sfruttatori del pianeta. «Soprattutto sono dati importanti in termini di politiche da adottare. Quello dei cambiamenti climatici è un problema destinato ad ampliarsi, si devono ridurre le emissioni, ma va fatto in modo ragionato, chiedendosi quali azioni ha senso fare e quali no. Si guarda sempre solo un lato della medaglia, e sembra che più in fretta riduciamo meglio è». Non è così? «Se noi guardassimo solo l’impatto ambientale la cosa giusta da fare sarebbe “spegnere” il mondo. Chiudere fabbriche, centrali, trasporti… domani. Si può fare, ma sarebbe un disastro. Abbiamo un problema da risolvere, ma diminuire le emissioni ha un costo».

Il clima peggiora, la vita migliora

Un anticapitalista accuserebbe Ramella di volere continuare a far fare profitti a chi produce petrolio e carbone. «Falso, siamo noi a preferire le fonti fossili: produrre un Kwh con fonti rinnovabili costa di più che produrlo con fonti fossili. Oggi il divario si è ridotto, ma c’è il problema non secondario dell’intermittenza delle rinnovabili, non sempre disponibili, e nei loro costi bisogna considerare anche quelli degli impianti di backup per quando il vento non soffia e il sole non splende. Nessuno di noi sceglierebbe l’energia prodotta con carbone o il gas se quella eolica o solare fossero più convenienti. E se lo fossero non servirebbero miliardi di sussidi pagati da noi. Nel breve tempo ridurre le emissioni ci impoverisce; si pensi al recente aumento delle bollette: oggi il peso delle politiche climatiche è minimo, ma rischia di aumentare se si procede troppo velocemente: più facciamo in fretta, più il costo aumenta».

Ma mentre cerchiamo la giusta velocità di crociera, sul clima viene suonato l’allarme continuo. «Io credo ci sia innanzitutto una ingenua ma comprensibile convinzione per cui qualsiasi azione che fa bene all’ambiente è positiva. Ma questo è un ragionamento troppo semplificato. L’ambiente è un elemento importante, ma non è l’unico. In un recente sondaggio la maggioranza dei giovani americani ha detto di esitare nell’avere figli perché il futuro sarà terribile. Un’affermazione del genere è una sconfitta, e credo sia figlia di una comunicazione sbagliata sul tema. Si identifica il futuro con il clima del futuro. Il clima sarà peggiore, ma le condizioni di vita saranno migliori. Non dobbiamo dimenticarci che nell’ultimo secolo mentre “rovinavamo” il clima miglioravamo le condizioni di vita».

L’obiettivo non è il clima da salvare

Quando si parla di clima si parla quasi solo di eventi estremi, del numero di uragani, degli episodi di calore e delle precipitazioni in aumento. «Ma il dato più importante è che oggi siamo molto meno vulnerabili di una volta: per eventi estremi si muore il 95 percento in meno di un tempo. Siamo molto più sicuri grazie alla crescita economica e allo sviluppo della conoscenza scientifica che ci permette di prevedere certi fenomeni. La ricchezza ci protegge dal clima ostile: è un “vaccino” straordinariamente efficace».

Non c’è solo la buonafede di chi si preoccupa dell’ambiente, però, dietro a certe posizioni estremiste, spiega Ramella: «C’è, a mio parere, una forte componente ideologica che vede nella lotta al cambiamento climatico non il fine, ma un mezzo per abbattere il capitalismo. Chi odia l’occidente e il suo modello ignora volutamente il miglioramento delle condizioni di vita e vorrebbe “fare la rivoluzione”».

Con India, Cina e altri paesi emergenti che continuano a produrre CO2 semi indisturbate, e quindi a crescere con costi minori, il rischio di squilibrio economico con Europa e Stati Uniti non è sempre più alto? «Più che focalizzarmi sulla perdita di competitività, che pure è reale, direi che questa politica è miope perché agisce su bacini sempre più piccoli, come l’Europa appunto che trent’anni fa pesava per il 20 per cento delle emissioni mondiali e oggi solo per l’8 per cento La strategia più efficace è quella che, a parità di risorse, riduce le emissioni là dove è meno costoso farlo: tutte le emissioni fanno lo stesso danno ma non per tutte è uguale il costo di abbattimento».

Una soluzione intermedia e non costosa

«Alcune ricerche hanno mostrato che ridurre le emissioni nei paesi poveri ha un costo molto più basso rispetto a interventi analoghi che facciamo nei nostri paesi, ad esempio con forti incentivi alle auto elettriche. Il nostro compito dovrebbe essere aiutare questi paesi a ridurre le emissioni: l’occidente ha una responsabilità storica, e un debito di emissioni prodotte in passato, che non deve però tradursi in sovranismo ambientale, “ridurre le emissioni a casa nostra”».

Come se ne esce? Non con il negazionismo ma neppure con l’allarmismo, dice Ramella: «Occorre una soluzione intermedia, una transizione e non una rivoluzione. Ad esempio si può aiutare la Cina a passare al gas e abbandonare il carbone. Il gas produce emissioni, ma in minore quantità. E poi investire di più in ricerca sulle nuove tecnologie, invece di sprecare centinaia di miliardi in nuove linee ferroviarie grazie alle quali viaggeranno più velocemente poche migliaia di persone ma che sono irrilevanti per la riduzione delle emissioni».

In fin dei conti, conclude Ramella, «stiamo parlando di un problema importante, ma non della fine del mondo». E che sarebbe preferibile affrontare con una regolazione intelligente, basata sulla applicazione di una carbon tax: chi emette più CO2 paga di più, poi saranno consumatori e produttori a scegliere qual è la soluzione migliore per ridurre le emissioni. La Ue ha invece preferito un approccio “sovietico” fatto di piani quinquennali, standard, divieti, sussidi e una contorta regolazione che avrà l’effetto di farci arrivare allo stesso traguardo spendendo molto di più di quanto necessario: come se tra due identiche bottiglie di vino avessimo scelto di acquistare quella più cara. Oppure, a parità di risorse da investire, di raggiungere un risultato molto più modesto. Esito paradossale soprattutto per chi ha più a cuore le sorti del clima».

Tags: Climacop26green dealriscaldamento globale
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