La “battaglia generazionale” non basta. I giovani in piazza per il clima soffrono d’ansia

Di Piero Vietti
25 Settembre 2021
Fatalisti e terrorizzati dai cambiamenti climatici, i ventenni danno la colpa ai governi per disastri che non ci sono, trasformando un problema superabile nella fine del mondo
Manifestanti in piazza a New Delhi per il Friday for future
Manifestanti in piazza a New Delhi venerdì 24 settembre (foto Ansa)

La piazza scioperante dalla scuola dei Fridays for future è stata raccontata su tutti i media con dovizia di ammirazione, commozione e ovvio senso di colpa. La ripetizione di slogan già vecchi dieci anni fa – non possiamo più aspettare, o cambiamo adesso o sarà troppo tardi, siamo a un punto di non ritorno, avete visto che caldo quest’estate? – è stata rivenduta come una nuova consapevolezza nelle generazioni a cui i più anziani lasceranno il pianeta.

Ah, i giovani d’oggi

Da quando, per la prima volta nella storia, i-giovani-d’oggi non sono più peggiori dei giovani di ieri, ma migliori e da imitare, non c’è parola che uno di loro dica sull’ambiente che non venga amplificata. La narrazione che piace è quella di giovani preoccupati per il futuro del clima e pronti a combattere per salvarlo contro boomer irresponsabili che non capiscono la gravità della questione.

Una recente ricerca del King’s college pubblicata dal New Scientist ribalta però questo «mito diffuso». La percentuale di over 55 che si dice preoccupata per il futuro di orsi bianchi e ghiacciai è pari a quella della generazione Z. Con una differenza non da poco: i ragazzi pensano che cambiare stile di vita per frenare il riscaldamento globale sia inutile. I ventenni ha la sensazione che tutto sia già perduto. Già, ma chi li ha resi così fatalisti, se non politici, media e influencer che da anni spingono sulla “battaglia generazionale” e mettono Greta Thunberg su un piedistallo nel goffo tentativo di piacere a lettori ed elettori di domani? Il fatalismo porta inevitabilmente all’ansia, come si scopre da un’altra ricerca, questa volta di Lancet, fatta tra 10.000 ragazzi tra i 16 e i 25 anni di dieci paesi diversi.

Che ansia questi governi che non fanno niente

E qui il cortocircuito è servito:

«Il cambiamento climatico ha implicazioni significative per la salute e il futuro di bambini e giovani, anche se loro hanno scarso potere di limitarne i danni, rendendoli vulnerabili all’aumento dell’ansia climatica. Studi mostrano che l’ansia climatica è associata alla percezione di azioni inadeguate da parte degli adulti e dei governi, con conseguenti sentimenti di tradimento, abbandono e danno morale».

Da questa «prima indagine su larga scala sull’ansia climatica nei bambini e nei giovani a livello globale» si scopre quindi che i giovani sono fatalisti e in ansia perché gli adulti non fanno nulla per il clima, mentre gli adulti sono quelli che più si dicono pronti a cambiare stile di vita per salvare il clima.

State a sentire:

«Gli intervistati si sono detti preoccupati per il cambiamento climatico (59% molto o estremamente preoccupato, 84% almeno moderatamente preoccupato). Oltre il 50% si sentiva triste, ansioso, arrabbiato, impotente, impotente e colpevole. Oltre il 45% ha affermato che i propri sentimenti sui cambiamenti climatici hanno influito negativamente sulla loro vita quotidiana e sul loro funzionamento e molti hanno riportato un numero elevato di pensieri negativi sul cambiamento climatico. Gli intervistati hanno valutato negativamente la risposta del governo al cambiamento climatico e hanno riferito maggiori sentimenti di tradimento che di rassicurazione. Le correlazioni hanno indicato che l’ansia e il disagio legati al clima erano significativamente correlati alla percepita risposta inadeguata del governo e ai sentimenti di tradimento associati».

Emozioni climatiche

Sentimento, sensazioni, emozioni, impressioni. La guerra al clima che cambia sembra una grande seduta di autoanalisi collettiva. Ciò che conta è l’allarme, la ferita, il cuore spezzato per la foresta che brucia, la colpa da addossare a qualcun altro per l’impotenza a cui ci ha costretti. Dopotutto siamo nella società del desiderio che deve diventare diritto a tutti i costi, se un ragazzo si sente in ansia per il clima il governo deve agire più in fretta e fare quello che il ragazzo pensa si debba fare, paradossalmente la conclusione della ricerca di Lancet non è tanto “fate qualcosa per il pianeta” ma piuttosto “fate qualcosa per l’ansia di questi ragazzi”.

In effetti, dopo averli terrorizzati per anni anche grazie a una sapiente scelta del linguaggio e del taglio dato alle notizie sui disastri naturali (sempre e soltanto sulla falsariga di “non si era mai visto” anche quando si era già visto), rischiamo di avere presto al comando una generazione impaurita e fatalista. Eppure basterebbe guardare qualche numero per non farsi prendere dall’ansia.

Niente panico, dicono i dati

Per fortuna ci ha pensato il Wall Street Journal, affidando all’economista esperto di politiche climatiche Bjørn Lomborg una rubrica per avvicinarsi alla Cop26 di novembre a Glasgow conoscendo alcuni «importanti fatti sui cambiamenti climatici che non sempre trovano spazio sui media». Ogni giovedì Lomborg aiuterà i lettori a «capire meglio i reali effetti del Climate Change e i veri costi della politica climatica». Nel primo articolo della serie, Lomborg parte proprio dallo studio di Lancet: «Quasi la metà dei giovani americani crede che “l’umanità sia condannata” e due terzi pensano che “il futuro è spaventoso”. Ma mentre il cambiamento climatico è un problema, il panico è ingiustificato. I dati mostrano che l’umanità ha superato minacce molto più grandi nell’ultimo secolo».

Lo stesso “economista scettico” ha più volte ricordato ad esempio come la mortalità relativa a fenomeni meteologici estremi sia crollata negli ultimi decenni, che un aumento delle temperature equivale a meno morti, che non è vero che gli uragani sono aumentati. L’inquinamento atmosferico – si badi, non la CO2 – nel Novecento ha rallentato l’aumento del prodotto interno lordo globale del 23 per cento, scrive Lomborg. «A un pubblico giovane potrebbe sembrare una misura insufficiente del benessere, ma un PIL più alto significa salute migliore, mortalità più bassa, maggiore accesso all’istruzione e in generale un tenore di vita migliore. Entro il 2050 il problema dell’inquinamento atmosferico sarà in gran parte risolto. E questo è solo uno dei tanti problemi che l’umanità ha ridotto negli ultimi 100 anni».

Un problema, non la fine del mondo

Ecco perché «la sfida che il cambiamento climatico pone, sia all’ambiente che alla società, sembra piuttosto piccola rispetto a quelle che l’umanità ha già incontrato. L’economista del clima William Nordhaus, vincitore del premio Nobel, ha dimostrato che un aumento di circa tre gradi e mezzo delle temperature mondiali entro il 2100 costerebbe solo il 2,8% del PIL globale all’anno». Non solo, «le Nazioni Unite si aspettano un aumento della ricchezza procapite del 450% entro il 2100 al netto dei costi del cambiamento climatico. Seguendo le attuali proiezioni di aumento delle temperature, il global warming ridurrebbe l’aumento della ricchezza a solo +434%. Questo è un problema, ma non è la fine del mondo».

Il dato economico non è il solo da guardare per capire se il mondo sarà un posto migliore o no tra ottant’anni, certamente, ma con tutti i suoi limiti è un indicatore più concreto dei sentimenti e delle ansie dei giovani. Che forse dovrebbero leggere anche Lomborg, e non solo Thunberg.

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