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La promessa di flessibilità “strappata” da Renzi in Europa? Una svoltina. Ci aspettano ancora vent’anni di mazzate da 10 miliardi l’una

Il premier ha inaugurato il semestre italiano incassando uno sconto minimo. Restano intatti i vincoli del Fiscal Compact, il vero cappio alla ripresa

Rodolfo Casadei
05/07/2014 - 5:30
Politica
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Secondo Wolfgang Münchau, il Pierino la peste del Financial Times, Matteo Renzi è andato al Consiglio Europeo di Ypres-Bruxelles di settimana scorsa per ottenere tre obiettivi: un ammorbidimento dei vincoli del Patto di stabilità e crescita; un cambiamento delle norme del famigerato Fiscal Compact (il nome vero e orwelliano, Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, non lo conosce praticamente nessuno); un programma di investimenti infrastrutturali finanziati congiuntamente dall’Europa (eurobond). Non ha ottenuto nessuna delle tre cose, anche se il documento finale presenta un linguaggio che tiene conto delle richieste dell’Italia, della Francia e insomma di tutti quei paesi che genericamente chiedevano maggiore flessibilità nell’applicazione dei parametri del Patto di stabilità e del Fiscal compact per potere riprendere quanto prima il cammino della crescita economica e occupazionale, azzoppata dalle politiche di austerità imposte da Berlino e Bruxelles dopo il 2010.

In cambio di un linguaggio che mette gli accenti sugli investimenti e sulla crescita piuttosto che sui tagli della spesa pubblica – linguaggio già inaugurato dalla bozza di programma con cui il presidente uscente del Consiglio Herman Van Rompuy si era presentato alla riunione come previsto dal programma – e, pare, della nomina di Federica Mogherini ad Alto rappresentante della Politica estera e di sicurezza europea (che però verrà formalizzata più avanti, in un altro summit), Renzi ha dato il suo sì al documento finale e alla nomina di Jean-Claude Juncker a presidente della Commissione europea. Così per la terza volta negli ultimi 33 anni la carica più importante dell’architettura dell’Unione Europea sarà tenuta da un lussemburghese (i precedenti si chiamano Gaston Thorn e Jacques Santer): nessun paese può vantare una presenza più assidua.

Il testo finale e le nomine del 27-28 giugno erano stati preparati da settimane di minuetto e di gioco delle parti fra i capi di governo e le altre nomenklature europee, e dalle continue limature dell’agenda strategica destinata al successore di Van Rompuy, che quest’ultimo era stato incaricato di redigere e portare al vertice. L’agenda strategica è stata concepita fin dall’inizio per tenere a bordo Renzi e Hollande senza però creare difficoltà insormontabili alla Merkel. La quale ha giocato la parte del poliziotto buono in combinazione coi due poliziotti tedeschi cattivi, il ministro delle Finanze Wolfgang Schaüble e il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, che richiamavano l’assoluta necessità del rigore ogni volta che il primo ministro si mostrava più morbida.

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Ma la Merkel non doveva solo giocare al poliziotto buono alternativo ai poliziotti cattivi per tenere a bada Renzi e Hollande: da qualche mese deve vedersela con un vice primo ministro di coalizione e ministro dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, che le dà qualche problema coi suoi atteggiamenti da poliziotto superbuono. Da settimane costui insiste che le politiche di austerità mettono in difficoltà l’integrazione europea e, a termine, anche il benessere dei tedeschi. La Merkel ha dovuto quindi mostrarsi aperturista anche per tagliare l’erba sotto i piedi in patria e in Europa a Gabriel e alle sue velleità di membro scomodo della coalizione.

«Bene sulla parte economica»
Nell’agenda strategica scritta dagli sherpa di Van Rompuy che si è poi trasformata nel documento definitivo approvato dal Consiglio europeo del 27 giugno, si sottolineava che la flessibilità è già presente nel sistema di norme del Patto di stabilità e non si spendevano troppe parole sui deficit e sul debito. L’espressione “sforzi di consolidamento” riguardava solo i debiti passati. E il capitolo intitolato “Una Unione di posti di lavoro, crescita e competitività” era quasi interamente dedicato agli investimenti, tema caro ai capi degli esecutivi italiano e francese. In un paragrafo che sembra essere stato scritto a Roma o a Parigi anziché a Bruxelles si leggeva: «Investire e preparare le nostre economie al futuro: rispondendo ai bisogni di investimento da lungo tempo presenti nei settori del trasporto, dell’energia e della ricerca, delle capacità e dell’innovazione; mobilitando a tale scopo il giusto mix di finanziamento privato e pubblico e facilitando investimenti a lungo termine attraverso l’immediata mobilitazione degli strumenti finanziari esistenti e lo sviluppo di nuove capacità finanziarie; incoraggiando l’innovazione e la ricerca».

Il paragrafo di cui sopra, insieme al passaggio in cui si invita a «fare il migliore uso possibile» degli elementi di flessibilità già presenti nel Patto di stabilità, divenuto testo definitivo del documento finale, ha fatto dire al sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi che l’Italia è «molto contenta sulla parte economica» del documento uscito dal Consiglio europeo. L’idea renziana di non calcolare nel deficit il cofinanziamento dei fondi dell’Unione Europea e il saldo dei debiti della pubblica amministrazione non è passata, ma possiamo stare certi che, alla luce di quanto approvato a Bruxelles il 27 giugno, i governi di Roma e di Parigi potranno fare passare come investimenti tutta una serie di spese che in passato sarebbero state calcolate subito come parte del deficit di bilancio e quindi avrebbero concorso al superamento o meno del famoso 3 per cento, oltre il quale scatta la procedura d’infrazione.

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Però qui siamo al contentino e niente più. La vera posta in palio era e resta la modifica del Fiscal Compact e della norma capestro in esso contenuta: la necessità di rientrare dal debito eccedente il rapporto del 60 per cento col Prodotto interno lordo (Pil) al ritmo di un ventesimo della percentuale superiore al 60 per cento all’anno. Questo per l’Italia significa, a partire dall’anno prossimo, avviarsi a un processo ventennale che dovrà portare il rapporto debito/Pil dall’attuale 135 per cento al 60 per cento. Si tratta di tagliare 3,8 punti percentuali circa all’anno per vent’anni di seguito. Non costerebbe i 50 miliardi di euro aggiuntivi all’anno favoleggiati da Grillo alla vigilia delle elezioni europee, ma sarebbe comunque una mazzata di 7-10 miliardi di euro annui che, all’inizio, andrebbero a sommarsi a quelli che già l’Italia paga per gli interessi del debito e per la maturità di una parte di esso: nel 2011 sono stati 78 miliardi di euro, 89 nel 2012 e l’anno scorso 95.

Obiettivi irrealizzabili?
Quando l’Italia approvò il Fiscal Compact il rapporto debito/Pil stava al 120 per cento, e una simulazione calcolò che il rientro in vent’anni al 60 per cento avrebbe avuto bisogno di un tasso di crescita medio del Pil nominale del 2,6 per cento annuo per un ventennio. A una media del genere non siamo nemmeno vicini: alla fine dell’anno in corso la crescita del Pil sarà dello 0,6 per cento secondo la Commissione europea, solo dello 0,2 per cento secondo Confindustria. E nel frattempo il rapporto debito/Pil si è deteriorato in un batter d’occhio, grazie alle politiche recessive dei governi post-Berlusconi, di ulteriori 15 punti, passando da 120 a 135 per cento. Figuriamoci se l’Italia può sostenere una crescita vicina al 3 per cento annuo per vent’anni di seguito.

È per questa ragione che da alcuni mesi fioriscono ipotesi creative sulla riduzione del debito pubblico. Per la prima volta si sente parlare di ristrutturazione e di default selettivo in ambito europeo e in generale nel contesto di economie avanzate. Un documento recentemente prodotto dall’Fmi allarga le modalità con cui gli stati possono gestire l’impossibilità di pagare il servizio dei loro debiti e godere nel contempo dell’assistenza internazionale. Viene suggerito il congelamento dei pagamenti degli interessi in casi analoghi a quello della Grecia. L’Fmi riconosce oggi che un riscadenziamento dei pagamenti degli interessi sul debito greco sarebbe stato preferibile al salvataggio e alla ristrutturazione come poi sono avvenuti. Un numero crescente di economisti suggerisce di ridurre stock di debito insostenibili con misure inedite come il fallimento selettivo. Come ha scritto Marco Valerio Lo Prete sul Foglio, «manovre non più fatte di solo rigore fiscale e di sacrifici per i paesi debitori, ma di perdite da infliggere ai creditori privati che a quegli stati hanno concesso fiducia».

mess4È lo stesso concetto che Philippe Legrain batte e ribatte nel suo European Spring: Why Our Economies and Politics are in a Mess, dove scrive che se si fossero semplicemente seguite le regole europee, che prevedevano che gli stati non potessero salvare un altro stato dell’Eurozona che non riusciva a onorare i suoi debiti, e si fosse lasciato portare il peso del default alle banche francesi e tedesche che avevano effettuato il grosso dei prestiti alla Grecia, le cose si sarebbero sistemate molto prima e con dolori inferiori per i contribuenti sia europei che greci (ricostruzione ribadita in questa intervista concessa a Tempi poche settimane fa).

Letizia Reichlin, già capoeconomista della Banca centrale europea (Bce) che nel febbraio scorso stava per sedersi sulla poltrona che poi sarebbe stata occupata da Pier Carlo Padoan, ha scritto sul Corriere della Sera il 15 maggio scorso a proposito dei paesi dell’euro altamente indebitati come l’Italia: «In una unione monetaria un paese non può unilateralmente creare inflazione e svalutare, inoltre la crisi del debito in una nazione contagia gli altri perché mette a repentaglio la sopravvivenza stessa della divisa comune. Va costruito quindi un meccanismo di risoluzione a livello federale che renda legittima la ristrutturazione. Idee sul tema sono arrivate da economisti di vari orientamenti e il governo italiano dovrebbe considerarle come un elemento importante del negoziato europeo. Sia chiaro: le proposte più credibili oggi discusse non prevedono una semplice rinuncia unilaterale agli obblighi di pagamento del debito perché una mossa del genere porterebbe solo alla perdita di accesso al mercato. Le proposte meritevoli di attenzione sono quelle che prevedono regimi di ristrutturazione sotto l’ombrello del meccanismo europeo di stabilità e che condizionano gli aiuti a paesi con debito non sostenibile solo nel caso in cui quest’ultimo proceda a un accordo sul debito che preveda una modifica delle condizioni originarie del prestito. L’esistenza di un tale meccanismo creerebbe anche un disincentivo al credito facile negli anni di espansione o a una eccessiva esposizione di banche e risparmiatori ai titoli sovrani. Funzionerebbe, quindi, da deterrente».

Attenzione al vostro portafoglio
Padoan ha reagito con raccapriccio alla proposta, vedendovi un atto improvvido che avrebbe le conseguenze di rialzare i tassi d’interesse del debito nazionale. Invece Kenneth Rogoff, guru dell’università di Harvard coinvolto in grandi polemiche col Nobel Joseph Stiglitz e coi tanti che hanno creduto di trovare errori nel suo libro This Time Is Different, che stigmatizzava l’influenza del debito pubblico sulla scarsa crescita economica, ha recentemente affermato che la migliore soluzione per risolvere i problemi dei Pigs europei sarebbe «una drastica riduzione dei livelli di debito, magari costringendo i creditori privati ad accettare un allungamento della maturità (o durata) dei bond statali».

E mentre tanti discutono, c’è chi è già passato all’azione. Non l’Argentina, ma l’Austria sta mettendo a punto una legislazione che le permetterà di attuare il salvataggio della super indebitata banca Hypo Alpe Adria cancellando con un tratto di penna debiti subordinati per 890 milioni di euro, garantiti da un ente pubblico: la regione della Carinzia. Lo ha raccontato con dovizia di particolari il Financial Times del 26 giugno. I detentori di obbligazioni del debito pubblico dei paesi dell’Eurozona sono avvisati: il nuovo inizio dell’Europa potrebbe passare anche dal loro portafoglio titoli.

@RodolfoCasadei

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