L’ora di Natalina, 93 anni, più avanti di tutti quelli che si credono moderni

Di Luigi Amicone
24 Ottobre 2020
Una donna e la sua "resa a Dio e alla terra" di spettacolare superiorità. E un'intuizione del mio amico meritevole di Ambrogino

Cronache di mezzo lockdown / 1

«Figlio mio, è proprio l’ora di rendere l’anima a Dio e il corpo alla terra». Se la Chiesa fosse indietro di duecento anni, come pensava – detto con affetto – l’inamidato cardinale Carlo Maria Martini, non ci sarebbero donne come la mamma di Osvaldo. Che a 93 anni muore a Dio e alla terra in un modo così perfetto. Chiamando suo figlio e pronunciando, piena di una vita piena, «è proprio l’ora…».

La Chiesa «corpo misterioso di Cristo», come dice l’enciclica che ha folgorato il mio amico ebreo David M. J. («sì il Messia c’è e non è la Morte, ma Gesù il Signore»), non solo non è mai in ritardo come invece pensa il biblista – detto con ampia disistima – Alberto Maggi, che siccome papa Francesco profferisce a braccio sulle unioni civili lui, il biblo, ritiene che «la Chiesa arriva in ritardo sempre» (tra l’altro, se è sempre in ritardo, perché lui non prende un altro autobus invece di tediare i santissimi?): non è mai in ritardo ed è sempre avanti. Tant’è vero che produce persone vive come Natalina fino all’ultimo respirato nanosecondo.

E se per coltivare un rachitico senso di superiorità in cambio dell’infelicità i moderni sono costretti a rinnegare tutto il passato cristiano e semplicemente ogni cosa che passa per sentirsi migliori proiettando in un futuro che non esiste se non in forma di illusione, sogno, menzogna, le proprie immagini di desiderio e superiorità coltivate nel proprio infelice presente, ecco questa donna, Natalina, nomen omen, incarna una tipica resa a Dio e alla terra di spettacolare superiorità rispetto ai simili donne e uomini moderni. Perché? Perché Natalina non ha sognato, non si è illusa. E non ha neanche sperato della speranza scientifica bamba. Perché Natalina ha respirato fino all’ultimo nanosecondo in un giudizio sorgivo nel sé presente.

Incrocio Osvaldo al telefono appena saputo dei funerali di Natalina e appena dopo aver letto un Giorgio Vittadini. Il quale pur non avendo ancora reso l’anima a Dio e calpestando ancora la terra con il suo corpaccione, anch’egli, a suo modo, stranamente non professorale pur essendo lui un professore (statistica, e di livello internazionale: è nel 25 per cento degli analisti top al mondo), scrive per affrontare l’ennesima emergenza pandemica, lo straniamento da Covid, la paura e l’indifferenza che il virus genera, la diffidenza reciproca e la disperazione solitaria, il terrore indotto da un potere cieco alla vita. Ebbene, in conclusione di una disamina di tutto ciò di cui ho appena fatto cenno, Vittadini scrive che

«paradossalmente, adesso che ritorna difficile vedersi, possiamo scoprire che non si può “tenere” da soli: ma solo rinsaldando i legami, guardando quei volti che danno respiro, stando con più verità insieme a quelle persone che infondono speranza, fiducia, energia».

Ebbene tu vedi morire Natalina o senti morire una Natalina così. E capisci che puoi staccare la spina del televisore e ridere delle baruffe chiozzotte. Dobbiamo ripetere con don Giussani (dopo i morti italiani di Nassiriya che i nostri moderni non hanno ancora onorato) che «se ci fosse un’educazione del popolo, tutti starebbero meglio»? Sì, ma così: “Nataline di tutto il mondo unitevi!”.

(E con questo vi ho pure accennato il perché, tra le tante ragioni scientifiche e sociali, ho proposto Giorgio Vittadini per un Ambrogino d’oro, riconoscimento insigne di Milano ai suoi più insigni cittadini).

Foto Ansa

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