«Non cadremo nella guerra civile, è impossibile. Non è la prima volta che provano a separare la Cirenaica dalla Libia ma non ci riusciranno». Said Laswad, intervistato da tempi.it, è direttore del Tripoli post, settimanale libico in lingua inglese distribuito nel paese dal 1999. Due giorni fa la Cirenaica, regione libica orientale, si è dichiarata semiautonoma scatenando le ire della capitale e del Consiglio nazionale transitorio libico, che attualmente governa il paese, che ha minacciato «l’uso della forza». Said spiega i problemi e le speranze della Libia a oltre un anno dall’inizio della rivoluzione che ha portato alla morte del rais Muammar Gheddafi. «Vogliamo un paese unito, dove viga il rispetto della legge. E vogliamo anche la Sharia: siamo sempre stati un paese islamico ma questo non è in contraddizione con la democrazia».
La Cirenaica si è dichiarata regione semiautonoma con una celebrazione a Bengasi. Perché l’hanno fatto?
Non l’hanno detto e non si è capito bene perché. Si lamentano che mancano i servizi, che il governo non è attento alle loro necessità, che mancano le istituzioni. Ma dopo 42 anni di regime di Gheddafi le istituzioni mancano dovunque, ogni città ha sofferto: questo non li giustifica a chiedere l’autonomia. Dovrebbero anche loro appoggiare il governo centrale e lavorare per aiutare a costruire una nuova era in Libia.
Temete che dall’autonomia si arrivi alla divisione della Libia?
È difficile parlare di divisione. La grande maggioranza della Cirenaica è contro la divisione, la separazione e il sistema federale non sono cose nuove. La gente ha già sperimentato entrambe e se nel 1963 il sistema federale è stato abolito è perché non è adatto per la Libia. Chi ha chiesto la semiautonomia per la Cirenaica è gente tribalista, reazionaria, che ostacola lo sviluppo del paese. Non sono appoggiati dalla popolazione.
In Cirenaica ci sono la maggior parte dei pozzi petroliferi libici. Forse sono interessati a monopolizzare l’estrazione dell’oro nero?
Il petrolio è di tutta la Libia e il governo lo usa per tutta la gente. Non siamo più sotto il regime di Gheddafi che lo rubava alla gente e lo usava per arricchirsi. Il Parlamento e il presidente che saranno tra poco eletti democraticamente lavoreranno sicuramente per lo sviluppo del paese. Tutti godranno dei proventi del petrolio: i cirenaici non possono monopolizzarlo.
Ma chi c’è dietro ai rappresentanti dei leader tribali che si sono visti in piazza e alle milizie che hanno sfilato a Bengasi?
Uomini della famiglia di Senussi. Ahmed Zubair Senussi [che è stato nominato a capo del Consiglio cirenaico, ndr] è cugino dell’ex re Idris. È stato in carcere 30 anni perché accusato di volere organizzare un colpo di Stato. Nella storia della Libia ci sono state molte persone che hanno cercato di dividere il paese, di separare la Cirenaica dal resto della Libia. Ma non ci sono mai riusciti.
Ci riusciranno questa volta?
No, perché la gente non vuole né il federalismo né la divisione del paese, ma uno Stato unito e democratico. Sono un piccolo movimento e spariranno presto.
Il presidente del Consiglio nazionale transitorio libico ha detto di «essere disposto a usare la forza». Potrebbe scoppiare una guerra civile?
Ha fatto bene a usare parole forti. Anche voi in Italia, se una regione dicesse di volersi staccare dal paese, usereste la forza. Chi minaccia il paese deve essere combattuto. Ma la guerra civile è impossibile.
Il 17 febbraio scorso in Libia si è festeggiato il primo anniversario della rivoluzione. Ma i problemi del paese sono ancora tanti: ad esempio le moltissime armi in circolazione e gli ex ribelli che non vogliono tornare alla vita di tutti i giorni.
Oggi moltissimi ribelli stanno entrando nell’esercito nazionale, altri vengono arruolati dal ministero degli Interni. Percepiscono un salario ma è chiaro che il processo sarà lungo. Ci sono ancora tanti gruppi armati che però non costituiscono un problema perché il governo è forte.
Un rapporto di Human Rights Watch ha denunciato gli arresti e le detenzioni senza processi. Senza parlare delle torture.
È un grande problema che c’è oggi nel paese. La gente è spaventata, è contraria a questi arresti ma aspettiamo fiduciosi che il governo instauri il rispetto della legge. Noi tutti dobbiamo lavorare perché il paese torni ad essere sicuro.
Molti parlano anche di una “caccia all’uomo” nei confronti degli ex membri del regime di Gheddafi.
Non è una caccia all’uomo, non è vendetta, molti sono stati arrestati per quello che hanno fatto e staranno dentro fino a quando non ci sarà il processo. Vogliono destabilizzare il paese mentre invece, dopo la rivoluzione, noi abbiamo bisogno di stabilità. Però dobbiamo lavorare perché ci siano processi giusti.
Jalil ha già annunciato che la Sharia sarà una fonte di ispirazione della nuova Costituzione.
So dove vuole andare a parare. È la solita storia. E allora? Cosa c’entra? La Libia è sempre stato un paese islamico. Ma chi ha detto che uno Stato non può essere democratico e avere la Sharia allo stesso tempo? La Sharia sarà una delle fonti di ispirazione della nuova Costituzione ma non c’è niente nella legge islamica che possa fare al mio paese più male di 42 anni di dittatura feroce, appoggiata dai paesi occidentali. Islam e democrazia non sono in contraddizione. Se i libici vogliono la Sharia, sono liberi di sceglierla.
Quale futuro vede per la Libia?
Luminoso e prospero. Abbiamo la fortuna di vivere in una terra molto ricca e sono certo che usciremo più forti da questa crisi. In giugno ci saranno le elezioni e saranno democratiche e trasparenti. Poi scriveremo la Costituzione ed eleggeremo un presidente. La Libia diventerà un membro costruttivo della comunità internazionale. Saremo anche utili nella lotta al terrorismo.
Come sono oggi i rapporti con l’Italia?
Molto buoni. Il rapporto tra noi e voi è molto forte: è storico e culturale, ed è difficile interromperlo. Libia e Italia devono continuare a lavorare insieme: del resto, siamo anche molto legati economicamente.
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