Elezioni. Malagola (Fdi): «Il partito conservatore della Meloni sarà sussidiario e non statalista»
Quello che vuole fare in Fratelli d’Italia, Lorenzo Malagola lo ha dichiarato apertamente a ogni dibattito pubblico a cui ha partecipato in questa campagna elettorale. E, dice, sul suo tentativo ha già incassato il via libera di Giorgia Meloni: prova ne è una candidatura per Fdi alla Camera dei deputati nel collegio plurinominale di Milano «con alte probabilità di risultare eletto», spiega. Cattolico e ciellino, già consigliere comunale a Milano e poi braccio destro del ministro del Welfare Maurizio Sacconi ai tempi del Pdl, attualmente segretario generale della Fondazione De Gasperi, il giovane veterano Malagola ha infatti deciso di ritornare alla politica (dopo diversi anni da manager in aziende multinazionali) con un obiettivo chiaro e dichiarato: creare uno spazio di presenza, di espressione e di battaglia per i cattolici dentro quel largo e plurale “partito conservatore” che Giorgia Meloni progetta di costruire a partire da Fdi. È soprattutto di questo obiettivo che i potenziali elettori chiedono conto a Malagola, e gliene chiede conto anche Tempi, che lo ha indicato tra i candidati meritevoli di voto il 25 settembre, in questa intervista. Inevitabile, però, partire dalle ultime “attenzioni” non proprio carine che la stampa italiana ha dedicato al suo partito e alla sua coalizione.
I giornali titolano le prime pagine con i moniti dei socialdemocratici tedeschi contro «la postfascista Meloni». Il Guardian e Financial Times avvertono che «un governo di estrema destra» avrebbe per l’Italia «conseguenze terribili». E l’elenco potrebbe continuare. Risposta?
Innanzitutto è importante ribadire che l’Italia è un paese sovrano che si trova nel bel mezzo di un processo democratico, ed è bene che altre nazioni non interferiscano con esso. Secondo: non mi sembra che si stia delineando lo scenario di un governo di estrema destra. Se vinceremo le elezioni l’esecutivo sarà costituito da una coalizione che in Italia ha già governato tre volte (1994, 2001, 2008), formata dagli stessi partiti che compongono il centrodestra da sempre. E poi è stato Mario Draghi, il più importante rappresentante del nostro paese a livello internazionale, a dire che «la democrazia italiana è forte». Non vedo ragioni per agitare queste paure.
Lo stesso Draghi ha spiazzato molti quando al Meeting di Rimini ha detto che «l’Italia ce la farà con qualsiasi governo».
Appunto: Mario Draghi, che conosce benissimo il panorama internazionale e ha chiaro qual è la situazione del nostro paese, non vede alcun motivo di temere la prospettiva di un governo Meloni. Di più: è ormai risaputo che tra i due, Draghi e Meloni, c’è un rapporto di stima nato su una collaborazione dialettica ma leale tra lui presidente del Consiglio e lei capo dell’opposizione. Oggi paradossalmente Giorgia Meloni ha la chance di assumere l’incarico di presidente del Consiglio proprio per il modo costruttivo in cui ha fatto opposizione a Draghi.
Draghi è una figura di riferimento per gran parte del suo potenziale elettorato: secondo lei il centrodestra deve in qualche modo “recuperarlo”? E come?
Non sta a me dire quale ruolo potrebbe ricoprire Draghi in futuro. Sicuramente la leader di Fdi ha ripetuto in più occasioni che salverà quanto di buono ha fatto il governo Draghi, proseguendo sulle strade da lui tracciate, senza rinunciare a definire un’impronta diversa in quegli ambiti in cui l’esecutivo attuale, anche a causa di una compagine troppo eterogenea, non è riuscito a incidere, come la crisi energetica, il lavoro e la natalità.
Ma perché spendersi per Viktor Orbán in una fase in cui la sua Ungheria – rispetto alla guerra in Ucraina e ai rapporti con Putin – si è oggettivamente isolata in Europa? Perché mettersi a difenderlo proprio adesso?
Giorgia Meloni è una persona estremamente libera. Ha assunto una postura internazionale filoatlantista ma, al tempo stesso, è libera di difendere i diritti di un popolo sovrano come quello ungherese in risposta al maldestro tentativo del Parlamento europeo di imporre contemporaneamente cambiamenti giuridici ed etici all’ordinamento magiaro. Oggi tocca all’Ungheria, domani potrebbe toccare ad altri Stati membri: il tema della libertà di espressione e autodeterminazione dei popoli è ancora purtroppo centrale nel rapporto con un’Unione europea che si vuole affermare come un Super-Stato.
La svolta atlantista della Meloni è diventata evidente a tutti dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Ma il vero problema di questa guerra, ripete praticamente solitario il Papa, non è schierarsi dalla parte “giusta”, bensì lavorare per la pace. A maggior ragione dopo l’ennesimo azzardo di Putin. Cosa significa il richiamo di Francesco per un politico cattolico? E cosa può fare un governo di centrodestra per la pace?
Penso che Giorgia Meloni abbia fatto bene a riaffermare con forza l’appartenenza dell’Italia all’alleanza atlantica, tanto più in un momento nel quale l’Italia sta vivendo relazioni diplomatiche molto fredde con gli Stati Uniti, a causa degli ammiccamenti di Giuseppe Conte verso la Cina e di alcune relazioni non opportune di Matteo Salvini con la Russia. È molto importante che l’Italia torni a essere considerata dagli Stati Uniti un alleato credibile. Ciò detto, la guerra in Ucraina ci impone da un lato di sostenere la difesa della libertà di un popolo aggredito, dall’altro di provare con la diplomazia ad arrivare in tempi rapidi a una tregua e ad accordi di pace con Mosca. Il nostro obiettivo non può essere abbattere la Russia. Se l’Italia potrà avere un peso in questo processo di pace dipenderà dalla capacità di leadership di Giorgia Meloni. Ha dalla sua un esempio da seguire, la visione geopolitica di Silvio Berlusconi che rese l’Italia un ponte tra Stati Uniti e Russia.
La Fondazione De Gasperi è una realtà che più popolare non si può: cosa dicono gli amici del Ppe del fatto che il suo direttore si candidi per un partito di un’altra famiglia politica europea?
Hanno capito il mio tentativo, che non è affatto un tradimento della mia storia: al contrario voglio contribuire a consolidare un dialogo tra popolarismo e conservatorismo in Europa. Credo che siano due famiglie politiche che hanno tanti punti in comune, a partire dall’agenda antropologica. Va superata l’alleanza strutturale ed esclusiva tra Partito socialista e Partito popolare che negli anni ha finito per indebolire gravemente quest’ultimo. È evidente che su molti temi cruciali il Ppe si è lasciato contagiare dalla visione progressista del Pse. D’altro canto abbiamo visto che in Svezia invece questo nuovo trend – il riavvicinamento tra popolari e conservatori – ha avuto un primo risultato, con la vittoria alle recenti elezioni. E qualcosa di analogo, dopo il caso italiano, potrebbe avvenire anche in Spagna nel 2023 se si concretizzerà un’alleanza tra popolari e Vox.
Un tema centrale per i cattolici in politica è da sempre la sussidiarietà, e Fratelli d’Italia è il partito statalista per eccellenza nel centrodestra. Come stanno insieme le cose?
Io sono forte della mia storia, della mia identità e del popolo che mi sostiene. Entro a far parte di Fdi con l’idea di costruire il conservatorismo. E il conservatorismo non sarà statalista, sarà sussidiario e rivolto al futuro. Saremo innovatori nelle politiche e conservatori sui valori. Ci sono anche altre storie che sono confluite in Fdi, come quella dell’area liberale o quella riformista. Sono fiducioso che tutti noi sapremo trovare una sintesi identitaria e di visione che metta al centro della nuova prospettiva conservatrice la creatività, la capacità di intrapresa, la sussidiarietà non solo nei contenuti ma soprattutto nei metodi.
Altri “tormentoni” cattolici sono famiglia, educazione e lavoro. Quali sono in sintesi le vostre proposte su questi tre grandi temi?
Fratelli d’Italia è un partito conservatore, quindi ha al proprio centro un’antropologia positiva: la concezione secondo cui la persona ha una dimensione trascendente, e dunque non può essere ridotta a pura materia, ed è un essere relazionale, cioè vive dentro rapporti costitutivi (famiglia, associazionismo, lavoro). Ebbene, da questa visione antropologica discendono politiche molto chiare in tema di famiglia, educazione e lavoro. Il primo punto del nostro programma è il sostegno alla natalità, quindi introduzione del quoziente familiare e aggiornamento dell’assegno unico. Purtroppo migliaia di famiglie non hanno avuto accesso a questa ultima misura perché non sapevano di doverlo chiedere, così hanno perso anche le detrazioni e le deduzioni di cui godevano precedentemente. Ecco perché vogliamo che l’assegno unico diventi una misura ad accesso automatico. Inoltre, vogliamo rifinanziarlo per fare in modo che nessun nucleo familiare percepisca meno di quanto percepiva precedentemente tra detrazioni e deduzioni.
Passiamo all’educazione.
Nel nostro programma si parla espressamente di parità scolastica e di buono scuola. Vogliamo lasciare maggiore autonomia alle scuole, perché dove c’è maggiore libertà c’è anche più capacità di rispondere a bisogni che cambiano nel tempo. Basti pensare per esempio a come le scuole paritarie sono riuscite a reagire meglio delle scuole statali alle sfide poste dal Covid. O a come Its, enti di formazione e formazione professionale – gestiti da enti di terzo settore o con partenariati pubblico-privati – performino sull’inserimento nel mondo del lavoro.
Capitolo lavoro.
Quello del lavoro è un mercato profondamente cambiato. Oggi ci troviamo di fronte a tre grandi emergenze: il lavoro povero (12 per cento dei lavoratori vive in stato di povertà relativa), il “mismatch” tra domanda e offerta di lavoro (40 mila posizioni specialistiche non occupate), il boom dei Neet (tre milioni di giovani che non studiano e non cercano lavoro). Sono tre emergenze che ci chiamano a implementare quell’impianto immaginato da Marco Biagi per un mercato del lavoro più libero e più sussidiario, dove il rapporto tra impresa e lavoratore sia collaborativo e costruttivo. Vogliamo restituire potere di acquisto ai lavoratori detassando la parte variabile dei salari, cioè premi di produttività, straordinari, welfare aziendale, e spingendo sugli accordi territoriali e aziendali. Abbiamo intenzione di rivedere la formazione professionale affinché diventi perpetua e personalizzata. Infine: basta reddito di cittadinanza, una misura passiva e passivizzante; bisogna piuttosto riattivare i nostri giovani offrendo loro adeguata formazione e percorsi di avviamento al lavoro efficaci.
Quelli del lavoro sono temi che conosce bene, avendo affiancato il ministro Sacconi. Ma non solo Sacconi. Dopo di lui ha collaborato con Angelino Alfano, la fondazione De Gasperi… Insomma, è quello che si dice un moderato coi fiocchi. Non dovrebbe stare con Calenda e Renzi?
No, perché Calenda e Renzi appartengono all’altra metà campo. La loro origine è quella del Partito d’azione, un partito elitario, il contrario esatto del mia tradizione popolare, assolutamente sganciato da una relazione costitutiva con un popolo di riferimento. Un partito anche anticlericale. Queste caratteristiche sono rimaste tutte, infatti Calenda e Renzi gravitano intorno al Pd, non rappresentano in alcun modo un terzo polo indipendente e autonomo. E poi fanno della competenza la loro forza, ma la competenza per me è un prerequisito per chi fa politica, così come l’onestà. Il criterio per orientarsi non è la competenza: bisogna guardare piuttosto all’ideale che un partito serve e afferma. E gli ideali di Calenda e Renzi sono quelli del progressismo, lontani anni luce da ciò in cui credo.
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