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Elezioni. Roccella (Fdi): «La maternità è il nemico numero uno dell’uomo femminista di Letta»

«Si parla tanto di donne per colpirne una. Ma la sinistra punta a frantumarne l'identità. Noi vogliamo dare alle madri piena cittadinanza. E liberare il Sud dalla demagogia». Intervista

Caterina Giojelli
20/09/2022 - 6:27
Politica
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Eugenia Roccella
Eugenia Roccella (foto da Facebook)

«La maternità non è mai entrata nella politica, nello spazio pubblico. È sul materno che si fonda e aggrega il gruppo umano, ma nella democrazia liberale la cittadinanza e il diritto si fondano sul concetto di individuo e l’individuo, come è chiaro dall’etimologia, è solo uno, non si divide. La donna invece sì: la donna che aspetta un figlio è due in uno. Irriducibile a monade, o individuo fluido, intercambiabile, solitario, la madre, che è cura, relazione, colei che dando la vita è consapevole del limite umano, ma sa costruire la solidarietà tra generazioni, è il nemico numero uno dell’agenda progressista. Noi vogliamo darle piena cittadinanza».

Giornalista, saggista, ex parlamentare Fi, già sottosegretario alla Salute e al Welfare, leader del Movimento di Liberazione della Donna negli anni Settanta e battagliera portavoce della questione antropologica del cardinal Ruini contro la selezione genetica, l’eutanasia, l’espropriazione tecnoscientifica della maternità, Eugenia Roccella non è solo candidata con Fdi e tra i candidati promossi da Tempi alle elezioni del 25 settembre.

Senza il materno resta la donna-uomo di sinistra

Roccella è la spina nel fianco di una sinistra sessantottina che giunta alla terza età propina al paese la solita minestra di diritti e un’idea di donna ricalcata a immagine e somiglianza di un uomo: «Oggi il materno è ammesso quale ruolo uguale e intercambiabile al paterno, una concezione basata sull’indifferenza sessuale in cui si annida un concetto di figlio come diritto individuale, di cui madre e padre devono godere in egual misura. I risultati sono gli occhi di tutti: quando il ruolo genitoriale assume i contorni di un progetto astratto, dove conta solo l’idea neutra del diritto, e non l’esperienza, la genitorialità viene frantumata in bigenitorialità (parola pericolosa e ipocrita che ha attualmente molto successo) e poi in trigenitorialità e così via: la tecnica procreativa moltiplica le madri (genetica, biologica, intenzionale, sociale, eccetera), la donna diventa “persona con l’utero”, o persino “col buco davanti”, in un profluvio di aggettivi e trappole semantiche».

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Volte a cosa, poi? A dare l’idea che famiglia e genitorialità siano qualunque cosa ognuno voglia, tranne poi «ricalcare paradossalmente il modello di famiglia “naturale” che si è inteso sbriciolare, vedi la sentenza a Bari sul caso della “bambina nata da tre madri” dove il giudice ha rivendicato “l’interesse preminente del minore alla bigenitorialità”. Torniamo ancora all’idea che il figlio non sia frutto di una relazione tra un uomo e una donna, ma di un progetto individuale che coinvolge più persone nel nome “dell’amore”: un amore che diventa un affare di medici, provette, avvocati, contratti e va da sé, di relazioni costruite sulla rivendicazione di clausole e diritti. Con tutte le storture del mercato».

Il nuovo patriarcato del gender

L’ossessione della sinistra per il mercato dell’amore a mezzo contratto passa così attraverso la frantumazione del materno e dalla svalorizzazione della donna stessa: «Il nuovo patriarcato del gender – spiega Roccella -, allo stesso modo del primo patriarcato, con la sua retorica del materno utilizzata per lasciare le donne fuori dallo spazio pubblico, si nutre oggi dell’idea che la donna non esiste ma è una opzione a cui tutti possono aspirare. Un’operazione di espropriazione della differenza che nonostante goda di buonissima stampa inizia a scricchiolare. Non mi riferisco solo agli scandali delle cliniche gender del Regno Unito o della Svezia: è di pochi giorni fa il clamoroso dietrofront della biologa Anna Fausto-Sterling, ispiratrice di Judith Butler e fondatrice delle gender theory sull’affermazione dell’identità di genere. Io credo che alla prova dei fatti, e dei danni causati dall’azzeramento del corpo sessuato, le ragioni dell’umano e del corporeo stiano iniziando a presentarci il conto. La domanda è se vogliamo continuare a derubricare i problemi che stanno sorgendo in tutto il mondo, soprattutto tra gli adolescenti, a questione di “diritti” e fingere che lo sbriciolamento dell’identità femminile, del materno, della genitorialità e della famiglia sia cosa buona e progressista».

Liberare il Sud dalla demagogia (e dal Pd degli stereotipi)

Roccella non oppone alla sinistra che vive di stereotipi (vedi il bailamme intorno alla 194 dove ogni istanza a sostegno della maternità è bollata come «attacco all’aborto») una battaglia formato slogan e social network: è orgogliosamente candidata al Sud («sono nata a Bologna ma da mamma pugliese e papà siciliano e vissuta fino a cinque anni in un paesino della Sicilia»), soprattutto in una Puglia amministrata da 17 anni dalla sinistra «e dove ho incontrato un mare di risorse umane e imprenditoriali stufe marce del “modello Stalingrado” tutto giochi di potere, sacche di illegalità e divario con il nord che va veloce. Realtà coraggiose, femminili, capaci di dare e creare lavoro in una terra in cui non mancano risorse energetiche, in prima linea su solare ed eolico, e voglia di fare. Non c’è nulla da calare dall’alto: non si tratta di aiutare, ma di “fare Sud”, liberarlo da criminalità e burocrazia che frenano le imprese, e da cui sono scappati i giovani. Liberare il Sud dalla demagogia, dal paternalismo assistenzialista di Stato, e scommettere sulla sussidiarietà, crescita e sviluppo, coinvolgendo attivamente in primis chi ha voglia di fare e si affaccia sul mondo del lavoro».

L’ossessione di Letta per l’uomo femminista

Lo stesso approccio pragmatico alla natalità che per Roccella non è mai sinonimo di sostegno a un’idea di donna uguale e contraria all’uomo, «sono convinta che se l’inverno demografico in Italia è tra i più freddi d’Europa non è perché le donne non desiderano più essere madri, ma perché il prezzo di questa scelta è troppo alto, il carico economico poggia tutto sulle loro spalle, l’orizzonte resta quello di una parità falsa, che mortifica le competenze femminili. Ma le madri hanno capacità, maturate nell’esperienza, adeguate a tempi e modalità richieste da una famiglia, che l’uomo, il padre, non svilupperà mai: mettiamole nelle condizioni di sprigionarle per la comunità, rendiamo loro il valore infinito che meritano. Noi femministe abbiamo sempre combattuto l’idea della donna vista solo come vittima o come minoranza da risarcire con le quote: non ci interessa, come afferma assurdamente Letta nella sua ossessiva campagna anti-donna di destra al governo, “un uomo che fa politiche femministe”, e nemmeno l’idea che “delle cose da donne” se ne occupino gli uomini (vedi i manifesti di un candidato del Pd qui in Puglia che nemmeno è medico ma promette di occuparsi di endometriosi e vulvodinia). Anche perché, se il problema per Letta fossero davvero le politiche femministe, come mai ha fatto dimettere Andrea Marcucci e Graziano Delrio, capigruppi di Camera e Senato, per sostituirli con due donne, Serracchiani e Malpezzi?».

Parlare di donne per colpirne una

Perché poi in questa campagna elettorale si parla così tanto di donne? «Per colpire una donna, naturalmente». L’unica, mentre a sinistra di leader donne – anche quelle per cui il femminismo “è cosa nostra” – non se ne vede neanche l’ombra, ad aver fatto breccia nell’elettorato restituendo alla donna il nome che le è proprio: donna. Una donna, come ha detto la stessa Meloni, “brava come una donna”. Non opzione a portata di uomo, né “individuo col buco davanti”.

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Tags: Elezioni 2022enrico lettaeugenia roccellafemminismoGiorgia Meloninatalità
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